Un mio commento ai dati SIPRI sul commercio internazionale di armi, per il Manifesto
I dati del Sipri di Stoccolma sono sempre molto utili per andare a corroborare con numeri e cifre le tendenze del mercato delle armi, in generale delle spese militari, che sono evidenti a chi si occupa di questo settore. In particolare i Trends in international arms transfersappena usciti con riferimento al 2023 ci permettono di capire quali industrie militari (e di conseguenza quali Paesi) stiano spingendo sul commercio di armi non solo come fonte di ritorno economico ma anche – in alcuni casi soprattutto – come strumento di influenza e intervento nei conflitti e nelle zone più turbolente del globo.
Per tali motivi è sicuramente importante valutare gli aspetti più rilevanti che si possono trarre dagli ultimi dati. Ricordando che le cifre del Sipri sul commercio di armi fanno riferimento ad un trend-indicator value (Tiv) che per sua natura va preso come segnale di una dinamica e non nel suo valore assoluto.
Il primo elemento riguarda il valore globale del commercio di armi, che continua a salire sia su base annua che valutando andamenti a blocchi di cinque anni (per sua natura sia di accordi che di produzione, la vendita di armamenti si realizza su periodi medio-lunghi, da qui la necessitò di uno sguardo pluriennale). Non deve trarre infatti in inganno che l’ultimo quinquennio abbia totali leggermente inferiori al precedente, perché in tale periodo sono inseriti gli anni del Covid che hanno in un certo senso messo in pausa anche l’economia di questo comparto. La ripresa degli ultimi due anni è già ben visibile e sicuramente andrà a rafforzarsi ulteriormente nell’immediato futuro, a causa delle robuste crescite già previste per la spesa miliare nel suo complesso e per quella particolare relativa al procurementarmato.
Tendenza che va ad irrobustire un aumento di spesa militare comunque già presente, ma che viene accelerato dal coinvolgimento in conflitti di grossa portata di alcuni tra i maggiori produttori di armamenti (Ucraina e Palestina su tutti).
Se la spesa militare globale è quasi raddoppiata negli ultimi venti anni non è dunque un caso che anche il commercio di armamenti abbia subito un trend di crescita chiaro, dopo il punto di minimo toccato alla fine del secolo scorso.
Il secondo elemento è quello relativo ai paesi esportatori e alle direttrici di vendita internazionale. L’invasione dell’Ucraina, che inizialmente lo stesso Putin ipotizzava poter essere un volano per le armi russe ma che poi si è trasformata in una guerra più lunga di quanto atteso, ovviamente ha fatto crollare l’export militare di Mosca prontamente sostituita da altri Paesi fornitori. Tra essi sicuramente la Francia, che ha strategie di vendita pubblico-private molto aggressive in questo comparto, ha saputo approfittare della situazione anche se ovviamente rimangono sempre gli Stati uniti i veri protagonisti dell’export di armamenti: oltre il 40% del mercato internazionale è loro appannaggio.
Un dato davvero rilevante ed esplicito. Figlio anche del raddoppio di importazioni di armamenti da parte dei paesi europei (per il 23% dovuto al dato dell’Ucraina) che nel quinquennio 2019-23 hanno avuto origine negli Usa (era solo il 35% nei quinquennio precedente).
Nonostante ciò il commercio internazionale di armi continua ad avere una direzione precisa: dagli stati produttori (in particolare occidentali, più Russia e Cina) a quelli in cui le tensioni sono maggiori, e dunque si cerca di influenzare se non alimentare il conflitto. Non a caso è verso l’Asia e l’Oceania che finisce il 37% di tutte le armi esportate nell’ultimi lustro, seguite dal Medio oriente con il 30%.
E l’Italia dove si colloca, in questo quadro? Due sono gli elementi chiave da trarre dal +86% di balzo registrato (con una quota di mercato pari al 4,3% del commercio internazionale di armi). Il primo è la conferma della stessa, problematica, direzione di vendita: il 71% delle esportazioni di armi italiane degli ultimi cinque anni è finito in Medio oriente. Il secondo è la chiara smentita delle motivazioni date dal governo e dalla lobby dell’industria militare (con analisti collegati) alla proposta di peggioramento della Legge 185/90: non è vero che le aziende italiane delle armi siano più controllate e quindi fragili rispetto alla concorrenza (anche europea). Gli affari armati vanno già molto bene, ma chi li controlla non vuole che siano visibili: motivo in più per sostenere la grande mobilitazione promossa dalla società civile per mantenere trasparenza sul commercio di armi.