«Con meno spese militari raggiungeremmo gli obiettivi Onu: zero fame, istruzione per tutti»
«Parlare di pace significa, per noi, parlare di pace positiva. Non è assenza di guerra, ma costruzione di una società migliore che si genera aumentando la democrazia, l’accesso ai diritti e a quelle dimensioni che troviamo negli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu. Significa privilegiare la lotta al cambiamento climatico, alla fame, alle disuguaglianze, sapendo che quando si costruisce una crescita di diritti e un benessere allargato la pace ha più possibilità di radicarsi. L’assenza di guerre è parte imprescindibile e noi siamo presenti nelle situazioni di scontro soccorrendo le persone coinvolte; al contempo, operiamo contrastando l’aumento delle spese in armamenti, così come la risposta militare come unica opzione.
Con la guerra in Ucraina si è sdoganata la retorica a sostegno del riarmo: prima, le spese militari crescevano comunque, ma si faceva finta che così non fosse; oggi, invece, i governi le rivendicano. Ormai ammontano a 2100 miliardi di dollari all’anno. Un record storico! Destinando appena il 10 per cento di quanto speso in 15 anni, raggiungeremmo gli obiettivi dell’Onu, ovvero zero fame e zero sete nel mondo, educazione per tutti, sanità per tutti. Ma chiedere la pace non basta: noi ci mettiamo accanto al pacifismo di ideali e di cuore, studiando i dati e costruendo percorsi, che però vengono ignorati. Parlare di pace oggi significa anche spogliare il termine dalle connotazioni più emotive. Un approccio razionale consente di comprenderne la convenienza: la guerra conviene a pochi, la pace conviene a tutti».
Intervista per Io Donna del Corriere della Sera