Il «feticcio» delle armi è una facciata retorica: se la spesa militare potesse davvero darci sicurezza con le migliaia di miliardi spesi negli ultimi decenni l’avremmo già raggiunta.
Mio commento per “il Manifesto”
La politica e le dinamiche sociali non sono algebra, quindi i freddi numeri non possono descriverne e determinarne tutto il campo. Ma se le cifre in questione sono quelle dei bilanci pubblici, che rivelano le intenzioni dei governanti e soprattutto determinano la realizzabilità delle scelte, è evidente che non possono essere considerate un elemento secondario.
Per questo i nuovi dati SIPRI sulla spesa militare globale forniscono una fotografia importante, e da analizzare non superficialmente, delle dinamiche di militarizzazione che il mondo sta vivendo. Non solo come valore assoluto – cioè il record storico di 2.240 miliardi di dollari – ma anche nei trend e confronti che i dati dell’istituto svedese consentono di fare.
Ricordando sempre che non ci troviamo di fronte ad un rialzo imprevisto o in discontinuità con il passato, visto che le spese militari crescono da decenni e ormai superano del 35% il livello della Guerra Fredda e sono il doppio (in valori costanti, comparabili) la quota ereditata con la fine del secolo scorso. Permane una leadership statunitense ancora ben salda (39% del totale) nonostante la continua crescita cinese con un budget che sfiora i 300 miliardi. La Nato totalizza 1.232 miliardi di dollari, che superano di gran lunga i circa 380 miliardi combinati di Russia e Cina. In generale permane poi la tendenza a trasferire una quota sempre più alta di spesa militare nei fatturati delle industrie belliche, le vere beneficiarie di queste scelte.
Certo la guerra in Ucraina (e anche le tensioni nel Mar Cinese meridionale) hanno dato motivo a molti governi di imprimere una spinta ancora maggiore ai propri budget militare. Ma oltre a questo la vera discontinuità è quella delle retoriche: il conflitto percepito come più «vicino» ha aperto la strada a scelte dichiarate e rivendicate di riarmo, non più mascherate. Che considerano, anzi, le armi come unico «feticcio» capace di risolvere problemi politici e di sicurezza globale con ben altre motivazioni (e dunque ben altre strade di possibile soluzione). Quindi come mai in una situazione di martellamento retorico incessante in questo senso le cifre diffuse in questi giorni suscitano così poco interesse in certi ambienti e addirittura sono stati ignorati dalle principali testate “mainstream” italiane? Perché con una vera analisi dei numeri, come quella appena tratteggiata, una buona parte della facciata retorica del militarismo si sgretolerebbe evidenziando la propria inefficacia: se la spesa negli eserciti potesse veramente darci sicurezza forse con le migliaia di miliardi spesi negli ultimi decenni l’avremmo già raggiunta. Ma come si può ignorare come «non notizia» il fatto che il continente europeo abbia registrato una crescita di spesa militare del 13%, ritornando ai livelli della Guerra Fredda, o che il totale per i Paesi UE ammonti a 266 miliardi (aumento annuo di quasi il 3% e se consideriamo anche Regno Unito e Norvegia che partecipano a diverse iniziative comuni di difesa abbiamo un totale di 343 miliardi: più della Cina e quattro volte quanto speso dalla Russia)? Senza dimenticare i fondi messi a disposizione direttamente dalle Istituzioni Comunitarie, arrivati a 5,2 miliardi (di cui 3,2 per aiuto diretto militare all’Ucraina) mentre solo cinque anni fa erano praticamente a zero.
Eppure ci sarebbe comunque spazio per una vera alternativa, che prediliga investimenti di pace e non di guerra. Basterebbe non distogliere lo sguardo davanti alle reali minacce e crisi che si parano davanti ai nostri occhi. L’anno scorso la Campagna Globale contro le Spese militari (GCOMS, coalizione internazionale di cui anche Rete Italiana Pace e Disarmo fa parte) aveva sottolineato lo mancanza di investimento verso percorsi di pace (una frazione della spesa militare globale permetterebbe di raggiungere i principali Obiettivi di Sviluppo Sostenibile) ricordando quanto diceva già nel 2009 l’allora Segretario generale ONU Ban Ki-moon: «Il mondo è sovra-armato e la pace è sotto-finanziata». Per il 2023 il focus ha riguardato la minaccia della crisi ambientale e la necessità di un disarmo climatico, a partire dalla constatazione che il solo aumento annuale della spesa militare (ben 127 miliardi in più) ha di gran lunga superato i mai raccolti 100 miliardi annui indicati dalle COP come necessari per affrontare gli effetti negativi della crisi climatica. Invece «i fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmo e le iniziative di giustizia globale vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato».
Se per interessi di varia natura (di facile consenso politico, di allineamento a linee strategiche che vengono da oltre oceano, di vantaggio anche economico diretto o indiretto) i decisori politici continueranno a scegliere di armare pericolosamente il mondo, a premere per una strada diversa potranno essere le organizzazioni sociali. Capaci di leggere i numeri, oltre che le vere necessità dei popoli.