Documenti da Washington dimostrerebbero che l’esecutivo in carica potrebbe aver deciso di confermare ulteriori spese nel contestato programma di armamento. Si tratterebbe di altri 8 velivoli per un costo di almeno 730 milioni di euro
Mio articolo per Altreconomia
L’Italia sta continuando a partecipare al programma di cacciabombardieri Joint Strike Fighter o il “ripensamento” derivante da una nuova valutazione tecnica cui fa riferimento da mesi la ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha portato a un cambio di direzione? Non è facile capirlo con sicurezza, soprattutto per la grande opacità che da sempre contraddistingue il tema.
Se da un lato infatti a metà marzo il governo Conte ha confermato un bonifico di 389 milioni di euro per fatture pregresse, l’ultima notizia sulla partecipazione italiana al programma F-35 si riferisce a fatti dello scorso anno. A metà 2018 infatti l’Osservatorio Mil€x sulle spese militari aveva rivelato i dettagli di un contratto siglato dal Pentagono con Lockheed Martin e contenente anche un acconto per l’ordine italiano di un nuovo pacchetto di velivoli. Una piccola cifra (circa 10 milioni di dollari) se rapportata al costo complessivo del programma ma che inserisce l’Italia nel lungo processo contrattuale di conferma per aerei relativi ai Lotti di produzione 13 e 14; facendo riferimento all’ultimo profilo di acquisizione ufficiale si tratterebbe di almeno altri otto F-35 (di cui sei nella versione base). La notizia è diventata di pubblico dominio nei giorni in cui il governo Conte muoveva i primi passi ma è evidente che la paternità della decisione deve essere ascritta ancora al dimissionario governo Gentiloni, visto che la firma del contratto è avvenuta il 25 aprile 2018.
Tali otto velivoli costerebbero complessivamente da un minimo di 730 milioni di dollari (se si crede alle previsioni dei produttori, 85 milioni di dollari per la versione convenzionale e 110 per quella ad atterraggio verticale) ad un massimo di circa 1,3 miliardi di dollari tenendo conto di stime più complete, aggiungendo i costi del motore e degli interventi correttivi di retrofit, e realistiche (150 milioni di dollari per la versione A e 180 per quella B).
La notizia di oggi è che la conferma del proseguimento delle fasi contrattuali potrebbe essere arrivata: sono infatti almeno sei i contratti sottoscritti dal JPO (l’ufficio a Washington che coordina il programma JSF) a partire da Giugno 2018 e che coinvolgono anche non meglio individuati “partner internazionali” (come è l’Italia, che non è un semplice cliente del progetto ma ha preso parte fin dal 1996 anche alle fasi di sviluppo). Poiché in tali contratti viene specificata anche la quota di lavorazione (sempre attorno al 4%) effettuata in Italia, in particolare nell’impianto FACO di Cameri (No) è forte il sospetto che tra gli acquirenti internazionali ci sia anche il nostro Paese. I dettagli dei contratti che riguardano i partner internazionali sono di natura differente e fanno riferimento a lotti già iniziati in passato, ma almeno uno, quello dal controvalore di 22 miliardi di dollari firmato lo scorso 14 novembre, dovrebbe essere relativo anche a 89 “nuovi” aerei destinati ai partner internazionali. Qualcuno diretto anche in Italia? È ciò che sembra più probabile andando ad incrociare questa informazione con i documenti ufficiali della Difesa italiana.
Il sospetto di un via libera da parte del governo Conte al completamento del profilo di acquisto per i velivoli appartenenti ai lotti annuali (solo parzialmente iniziato dai Governi precedenti) si poteva infatti forse già avere leggendo il Documento di Programmazione Pluriennale della Difesa dell’ottobre 2018, nel quale veniva specificato un fabbisogno complessivo di poco superiore ai 7 miliardi di euro ma relativo “alla sola Fase 1 (associata alla produzione a basso rateo annuale) di prevista conclusione nel 2020. La Fase 2, qualora confermata, associata alla produzione pluriennale (cd Multi Year) di previsto avvio nel 2021 comporterà il finanziamento di talune componenti a lunga lavorazione dei velivoli ad essa associati già a partire dal 2019, con contribuzioni al momento ancora non definite”. In pratica: il Governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle non avrebbe semplicemente “congelato” la situazione in attesa di una decisione definitiva, come suggerito da molte dichiarazioni politiche, ma avrebbe deciso la prosecuzione di acquisto “non ancora obbligatoria” di alcuni lotti non tagliando nemmeno i velivoli “ordinati” da un governo Gentiloni agli sgoccioli e che non erano certamente arrivati alla fase contrattuale di conferma definitiva (il cosiddetto “buy year”). Il DPP era stato elaborato nella fase di passaggio di testimone tra governi, e per questo pubblicato con molti mesi di ritardo rispetto al previsto: per questo motivo tale deduzione poteva anche essere considerato solamente un indizio non definitivo. Le notizie sui contratti della seconda parte del 2018 provenienti da Washington sembrano ora fugare ogni dubbio.
Se dunque l’acquisizione relativa ai lotti 12, 13 e 14 verrà, come sembra, completata con i necessari passaggi successivi il totale degli F-35 comprati dall’Italia si dovrebbe attestare su almeno 26 velivoli, di cui 10 già consegnati (nove all’Aeronautica e uno alla Marina) e 8 già attualmente in produzione. Di conseguenza questi nuovi elementi un costo complessivo dei novanta cacciabombardieri F-35 che l’Italia prevede di comprare dell’ordine di grandezza di quanto da sempre valutato e denunciato dalle campagne per il disarmo: almeno 14 miliardi di euro (di cui oltre 4 già pagati) a cui si devono aggiungere almeno 35 miliardi di euro per costi operativi e supporto logistico per i decenni di vita previsti per gli aerei. Perché soprattutto i velivoli prodotti con i primi lotti “non maturi” avranno bisogno di costose operazioni di aggiornamento e sistemazione hardware e software (il cosiddetto retrofit già confermato dal Pentagono).
Che si stia continuando a puntare sugli F-35 lo indicherebbero da un lato la dichiarazione di “capacità operativa iniziale” (IOC) che l’Italia ha formalizzato lo scorso novembre per gli aerei di stanza ad Amendola in Puglia, ma soprattutto i costosi riammodernamenti delle basi che li ospiteranno. Oltre ai lavori sulla portaerei Cavour (costata 1,4 miliardi di euro ed entrata in servizio nel 2009) che da fine 2018 si trova nell’Arsenale di Taranto per essere sottoposta a processi di adeguamento legati proprio alle necessità operative degli F-35 che dureranno fino al settembre 2020. La nave Ammiraglia della Marina rimarrà in rada venti mesi per lavori che costeranno complessivamente 87,5 milioni di euro. Senza dimenticare il rischieramento di sei F-35 in versione convenzionale a Decimomannu in Sardegna ad inizio febbraio 2019, per un ciclo di addestramento avanzato di tre settimane con l’obiettivo di raggiungere la piena capacità operativa del sistema d’arma.