Nell’immaginario collettivo di buona parte del movimento paci sta mondiale, il “sogno di Isaia” della trasformazione di spade in vomeri occupa un ruolo importante. Anche in un racconto poetico come questo vi è il senso di una trasformazione sistemica come passo necessario per la concretizzazione di una società di Pace. È con questa prospettiva che abbiamo posto qualche domanda a Raul Caruso, tra i principali esponenti europei dell’ambito dei “Peace Studies” e autore di “Economia per la Pace” (ed. il Mulino).
Quali sono i principi dell’economia della pace e perché è importante studiarla?
L’economia della pace studia le cause dei conflitti a livello micro e macro, nonché le misure di politica economica volte a rimuoverle al fine di identificare percorsi di sviluppo nel lungo periodo. L’economia della pace, in particolare, individua i fattori di conflitti latenti che influenzano profondamente il comportamento delle istituzioni a livello nazionale e internazionale.
Che problematiche provoca un investimento spropositato dei fondi pubblici nel sistema militare e di guerra?
In primo luogo la parola “investimento” riferita al sistema militare è scorretta. Gli investimenti, per definizione, sono semi che daranno frutti nel futuro. La spesa militare è intrinsecamente improduttiva e quindi bisogna riferirsi ad essa come “spesa”. Una spesa militare eccessiva determina un impoverimento degli investimenti pubblici a disposizione di altri settori, come l’istruzione, la sanità pubblica che danno bene ci alle società per un periodo lungo. In altre parole, le risorse pubbliche impiegate per la spesa militare non sono impiegate nella maniera più fruttifera. Questo è vero in particolare nei Paesi con stringenti vincoli di bilancio come l’Italia. Il nocumento più grave per un’economia è sicuramente la perdita di “capitale umano”: l’impegno militare, infatti, costituisce un freno all’espansione dei livelli d’istruzione, riducendo la scolarizzazione e quindi l’accumulazione di capitale umano.
Carriera militare e percorso di studi universitari, infatti, sono spesso considerati scelte alternative da parte di giovani e famiglie. Nel lungo periodo, se l’impegno militare di un Paese si mantiene costante o in crescita, si determina una distorsione significativa nella produzione e nell’accumulazione di capitale umano, con conseguenze deleterie per il sistema economico. Un altro effetto è quello dell’aumento della corruzione. La spesa militare è inefficiente perché abbiamo oligopoli o monopoli nel lato dell’offerta e un monopsonio (un unico compratore) dal lato della domanda: si determina così un sistema di rendite di posizione che spesso sfociano nell’illegalità, in quanto strettamente legate a complessi sistemi di licenze e autorizzazioni dal lato dell’offerta che si traducono in opportunità corruttive diffuse. Ultima, ma non meno importante, è la consapevolezza che un’economia di guerra o di non-pace non sia fiscalmente sostenibile nel lungo periodo. Si pensi all’accrescimento del debito pubblico a causa delle spese militari e, nei casi più gravi, alle spese di gestione della guerra.
Si dice che la pace sia solo una conseguenza di una buona società (e di una economia florida), ma non potrebbe essere invece la base per ottenere tutto questo?
La Pace è l’asset principale di una società prospera. I meccanismi attraverso cui le società sono in grado di prevenire conflitti generano istituzioni virtuose che favoriscono la prosperità. Le due parole chiave per la pace sono: democrazia e educazione. La base per costruire la Pace è sempre il corretto uso delle istituzioni democratiche. Ma la democrazia deve essere sostanziale e non solamente aritmetica: l’elezione di Trump negli USA ha dimostrato che le democrazie possono essere molto divisive. Il secondo aspetto cruciale è l’educazione. Le società sono più produttive, più creative ma, soprattutto, con maggiore partecipazione civica se l’educazione è più presente. L’educazione senza democrazia può generare violenza diffusa e frustrazione. Una democrazia senza educazione può dar vita al governo dei “mediocri” e a divisioni profonde. Peraltro nelle società democratiche con adeguati investimenti in educazione a tutti i livelli abbiamo meno armi e spese militari. E non si tratta di una coincidenza.