home Parole e notizie Il gran bazar delle armi: mai così dalla Guerra Fredda. In testa sauditi e cinesi

Il gran bazar delle armi: mai così dalla Guerra Fredda. In testa sauditi e cinesi

Inchiesta di prima pagina de “La Stampa” – di Andrea Malaguti

L’uomo d’affari Trump ha messo le pistole sul tavolo. E il mondo ha deciso di accettare le regole del nuovo gioco. Quanta paura dobbiamo avere dopo il lancio sull’Afghanistan della Moab, mother of all bombs, l’ordigno più potente mai immaginato dopo la bomba atomica? Quale sarà il prossimo passo? E sono le guerre ad alimentare il mercato delle armi o è il mercato delle armi ad alimentare le guerre? Dubbio antico. E se Papa Francesco ha ragione quando dice: «Fermate i signori della guerra, la violenza distrugge il mondo e a guadagnarci sono loro», allora il più cinico speculatore del pianeta è il Presidente degli Stati Uniti. E il primo ministro italiano, Paolo Gentiloni, in questa piramide nera si colloca alle sue spalle ad appena sette scalini di distanza.

L’ultimo rapporto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), scienziati svedesi amanti della pace che tengono sotto controllo le fibrillazioni della terra, restituisce con chiarezza la dimensione della crescita globale: più 8% negli ultimi quattro anni. E il 2017 registrerà l’accelerazione più netta di questa stagione rischiosa. Solo l’Europa rallenta. «Quando Donald Trump ha annunciato un aumento di 54 miliardi di spesa militare per l’anno in corso e ha chiesto ai Paesi della Nato di fare la propria parte, l’effetto domino è stato immediato», dice una fonte americana molto qualificata che preferisce restare anonima del colosso Lockheed Martin. Lo stesso gruppo che produce e vende, anche all’Italia, gli imbattibili, costosi e contestatissimi caccia multiruolo di quinta generazione F35.

Escalation

Ventitré dei 28 Paesi dell’Organizzazione del Trattato Atlantico del Nord (Roma inclusa) si sono impegnati ad aumentare la spesa militare fino al 2% del pil entro il 2024. Un obiettivo ambizioso, e forse irraggiungibile, che secondo l’Istituto di Studi Strategici di Londra equivale a un investimento di 100 miliardi di dollari. «Siamo preoccupati che si possa scivolare in una nuova spirale di riarmo», ha detto il vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel parlando delle crescenti tensioni tra Russia e Nato. Quella preoccupazione in queste ore è diventata certezza. E fino a quando una fornitura di missili Tomahawk costerà quanto il giro d’affari di una piccola capitale europea, sarà difficile invertire la tendenza. Anche di questo Gentiloni discuterà con Trump nella visita a Washington del 20 aprile.

L’istituto di studi strategici britannico segnala che la Cina avrebbe destinato alle sue forze armate il 40% in più dei duecento miliardi di dollari dichiarati ufficialmente. Il Giappone ha portato il bilancio della difesa a 44 miliardi e l’Arabia Saudita ha aumentato la spesa militare da 80,7 a 85,4 miliardi di dollari (una cifra pari al 13% del proprio pil). La Russia, che pure spende un diciottesimo della Nato, dal 2010 ha investito 500 miliardi di euro e la Germania ha portato il suo bilancio annuale a 37 miliardi. Era davvero necessario?

Difficile rispondere lucidamente mentre la portaerei Carl Vinson, classe Nimitz, propulsione nucleare, fa rotta verso le coste coreane, la Cina litiga con il Giappone, il conflitto nello Yemen mette a rischio la vita di nove milioni di persone, l’Isis insanguina anche l’Europa e Putin e Assad si scontrano con Washington per il disastro siriano. «E’ complicato stare tranquilli in un mondo come questo», dice Guido Crosetto, presidente dell’Aiad, la federazione delle aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza. «In attesa della difesa europea, la scelta di stare dalla parte degli Stati Uniti è l’unica possibile. E non è vero che le armi producono guerra. La storia degli ultimi 70 anni racconta il contrario». È davvero così? Secondo Gianandrea Gaiani, esperto di conflitti e direttore di AnalisiDifesa.it «la corsa agli armamenti arricchisce gli Stati Uniti, ma anche la Russia». E quando Trump chiede agli alleati investimenti più significativi ottiene due risultati: alleggerire l’impegno militare americano e arricchirne l’industria interna. L’Europa compra, gli Stati Uniti incassano. «Non sono sicuro che gli interessi degli Usa e i nostri siano sovrapponibili. Le tensioni con la Russia e i conflitti in Libia e Ucraina dicono di no. E anche l’acquisto degli F35 da parte italiana. Ci servirebbero se dovessimo andare a bombardare Mosca o Pechino. Ma credo che non sia in programma. Si blatera tanto di difesa europea, ma intanto sostituiamo gli Eurofighter con aerei le cui tecnologie sono e rimangono nelle mani di Washington». E in attesa del passaggio dagli Eurofighter agli F35 l’Italia si trova a gestire due linee di aerei. «Che è come tenere due Ferrari in garage ma non avere abbastanza soldi per il bollo e la benzina», dice Gaiani.

Mentre l’Europa marcia in ordine sparso, senza neppure prevedere una ministeriale dei titolari della Difesa, a livello globale paura e business crescono di pari passo.

Multinazionali come Microsoft, Google e Amazon spendono 50 miliardi di dollari per lo sviluppo dei cosiddetti prodotti dual use. Software nati per scopi civili che diventano decisivi per navi, aerei, carri armati ma anche per la cybersicurezza, nuova frontiera dello scontro planetario. Che succede se un hacker entra nei sistemi di rifornimento energetici di un Paese? Quanto dura una nazione senza acqua e luce?

Cyberwar

L’ingegnere del Gruppo Elettronica dice: «Guardi le immagini». Un missile sparato a spalla parte da terra in direzione di un elicottero. Lo disintegra? «No, lo salviamo». Non è una cosa semplice da spiegare. Ma in definitiva sull’elicottero sono stati montati dei sensori che appena sentono arrivare il pericolo – e lo sentono in tempo reale – imbrogliano il razzo facendogli deviare la traiettoria. «Così salviamo i piloti e i mezzi». Mostra una sofisticata piattaforma alle sue spalle. Sarà lunga cinque metri. Uno spazio sufficiente a simulare una serie di situazioni di guerra. «La tecnologia è completamente nostra», dice l’ingegnere. Tecnologia che parte da Roma e rifornisce le forze armate di 28 Paesi.

Elettronica si occupa di protezione di piattaforme militari e ha un giro d’affari di duecento milioni. «Le esportazioni valgono il 60% del nostro fatturato. Il quadro geopolitico, la legge navale e la debolezza dell’euro ci hanno dato una mano. E dal 2015 abbiamo ricominciato a crescere», dice Domitilla Benigni, numero due di un gruppo capace di lavorare sui Typhoon e sulle fregate europee multi missione.

Il prossimo business è la sicurezza cibernetica. Attraverso una joint venture tra Elettronica e la modenese Expert System, è nata Cy4Gate leader nello sviluppo di algoritmi di intelligenza semantica. «Siamo in grado non solo di difenderci, ma anche di attaccare», dice Eugenio Santagata, ceo del gruppo. Competenze preziose. Che il Paese utilizza male. Eppure il Libro Bianco della Difesa riconosce la centralità delle reti informatiche e la necessità di creare un comando interforze, una sorta di Pentagono italiano, che coordini le attività cyber. La Nato ha riconosciuto il cyberspazio come quinto dominio della conflittualità (gli altri sono aria, mare, terra e spazio), la Germania ha dato vita a un cyber esercito di 13.500 uomini e anche la rete italiana per il disarmo e l’osservatorio sulle spese militari italiane, riconosce la delicatezza della nuova emergenza. «Le guerre sono fatte sempre meno con i cacciabombardieri e sempre più con armi informatiche in grado di mettere in ginocchio un paese con un clic», dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete. Riflessione che ne produce un’altra: le spese per la difesa sono distribuite razionalmente?

Il governo italiano ha stanziato 150 milioni nel 2016 – stanziamento non confermato per il 2017 – destinati per un decimo alla polizia postale e per l’importo restante ai servizi segreti. Come se la cybersicurezza fosse un problema solo civile e non militare. Un equivoco che consente a molte aziende di sottrarsi ai controlli della difesa nell’esportazione di software dual use. O è superficialità o è mancanza di consapevolezza. «Io mi limito a registrare la mancanza più elementare di una azione concertata», dice Santagata, segnalando che il Israele il business della cybersecurity vale il 5% del pil. «Siamo indietro. Ma il treno non è ancora partito. Il tempo per salire a bordo è questo», dice Domitilla Benigni.

Le spese italiane  

In attesa di salire sul treno, le 112 aziende italiane del comparto difesa danno lavoro a 50 mila persone e fatturano 15,3 miliardi l’anno. Cifre significative, anche se Clemens Fuest, ex capo dell’Ifo Institute di Monaco, avverte che «aumentare le spese per la difesa sottrae denaro per istruzione, ricerca, salute, infrastrutture e difesa dell’ambiente». Che cosa vale di più? Il bilancio ufficiale della difesa dice che la spesa militare è ferma a 20 miliardi, circa l’1,2% del pil, ma il rapporto dell’osservatorio Milex aggiunge a quella cifra 3,3 miliardi, segnalando un aumento del 21% della spesa dal 2006. Il boom non sarebbe tanto a carico della Difesa, quanto del Mise (il ministero dello Sviluppo economico) che lo finanzia con mutui onerosissimi «Il ministero dello Sviluppo economico impiega larga parte dei proprio fondi per la difesa. Tutti soldi che non vanno alle forze armate ma all’industria. E questo spiega la forte resistenza del complesso militare industriale al controllo del Parlamento sulle spese militari», dice Vignarca. Eppure, anche se i meccanismi di spesa restano opachi, l’investimento complessivo è in linea se non inferiore a quello dei partner europei. «Non spendiamo troppo. Il problema è che spendiamo male. L’esempio della cybersecurity è evidente. E bisogna tenere presente che ormai la produzione rappresenta solo il 30% dei costi. Il restante 70% è logistica», dice Massimo Artini, vicepresidente della commissione difesa della Camera. Così i dubbi che restano sul tavolo sono sempre più radicali. Dobbiamo immaginare il nostro futuro difensivo con l’Europa o con gli Stati Uniti? E dobbiamo immaginare di limitarci a dare un apporto logistico o cominciare a sparare? Servirebbe una discussione aperta. Che non esiste. O che è imbarazzante fare.

Fonti del ministero della difesa spiegano che per quanto la difesa comune europea sia non solo auspicabile, ma persino necessaria, è difficile immaginare di realizzarla in tempi brevi. «In Europa non esiste neppure una commissione difesa». E così mentre il Vecchio Continente decide che cosa fare di sè, «quanto» e «come» investire, Trump sgancia bombe enormi, Pyongyang evoca la guerra nucleare, la Cina sostiene che il conflitto piò scoppiare da un momento all’altro e Mosca si dice molto preoccupata. «Trump vuole una Cina più debole e da questo punto di vista niente sarebbe di meglio di un conflitto tra Pechino e Pyongyang», dice Gaiani, rilanciando senza volere la domanda delle domande: siamo di fronte a una escalation inevitabile, necessaria, provocata ad arte, o figlia della pazzia?