Durante le convulse ore dell’11 settembre del 2001 una situazione mondiale già in piena trasformazione dopo il crollo del mondo bipolare a seguito della caduta del muro di Berlino cambia la propria faccia ancora una volta in maniera netta, con un’accelerazione ulteriore e improvvisa. L’attacco, in un certo senso improprio, verso le Torri Gemelle di New York, di cui comunque erano stati profeti due analisti militari cinesi notando “Siamo persuasi che alcune persone si sveglieranno di buon’ora scoprendo con stupore che diverse cose apparentemente innocue e comuni hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali”, innesca un cambio radicale negli equilibri di politica estera internazionale. Un cambio che principalmente avviene da parte degli Stati Uniti, che in quel momento non hanno più un antagonista politico-militare chiaro né nel vecchio gigante russo né nella nuova ascesa della Cina, e per conseguenza in automatico di tutti i suoi alleati.
Prende forma quasi istantaneamente, o meglio viene immediatamente applicata sfruttando la congiuntura dopo essere stata già elaborata nel periodo precedente, una dottrina dell’intervento diretto e armato all’estero che viene di dispiegata in tutta la propria intensità per prima nello scenario Iracheno, luogo in cui già l’intervento occidentale aveva fatto capolino, per poi arrivare in Afghanistan. Stato considerato “canaglia” perché pronto a dare rifugio ad una certa galassia terrorista è utile ad essere individuato come obiettivo da dare in pasto a un’opinione pubblica e a una politica incapace di comprendere al meglio la situazione. Proprio per mancanza di riferimenti di senso generale.
Il cattivo dei cattivi in quel momento, ad inizio Millennio, è Osama Bin Laden con la “sua” rete Al-Qaeda. Non si può partire per una guerra senza nemico! Questa impostazione e questa dottrina hanno avuto ormai modo di operare per almeno tre lustri e siamo dunque arrivati a un punto in cui è possibile tratteggiare qualche considerazione in merito.
Non c’è tempo e modo qui per condurre un’analisi completa ma qualche elemento importante ed interessante si può comunque tratteggiare.
La spesa militare mondiale
Dall’inizio della cosiddetta “war on terror” tutte le stime, al di là delle cifre specifiche, concordano su un punto fondamentale: la spesa militare mondiale ha avuto un enorme balzo negli ultimi quindici anni. Secondo i dati del SIPRI di Stoccolma si è arrivati a superare i 1750 miliardi di dollari annui, con una crescita di oltre il 50% tra il 2002 e il 2015! L’aumento è stato favorito nei primi dieci anni del periodo principalmente dai fondi delle potenze occidentali impegnate nelle coalizioni internazionali: da soli gli Stati Uniti hanno speso quasi 1600 miliardi in 13 anni per i loro dispiegamenti principali (Iraq, Afghanistan, Pakistan). Non a caso il 20% del debito pubblico statunitense di questo periodo deriva dalla spesa militare. Negli anni più recenti, complice anche la crisi economica e finanziaria internazionale, sono stati direttamente gli stati delle aree “calde” del modo ad aumentare i propri budget bellici (caso Arabia Saudita su tutti) oltre alla Cina.
La crescita della produzione e commercio di armi
L’aumento dei fondi a disposizione per gli eserciti (che misurano tutto: dagli stipendi alle uniformi, dalla benzina per i messi alle munizioni) ha trascinato verso l’alto anche la porzione dedicata all’acquisto di armamenti. Con grande felicità dell’industria a produzione militare. Sempre dai dati elaborati dal SIPRI si può rilevare come tra il 2002 e il 2014 il fatturato delle aziende belliche sia aumentato del 42% mangiandosi stabilmente ben oltre il 20% della spesa militare complessiva, per un controvalore attuale di oltre 400 miliardi di dollari annui. Queste cifre si riferiscono soprattutto agli acquisti diretti degli Stati. Più difficile invece valutare il commercio internazionale, con i trasferimenti conseguenti; anche se le stime più accreditate raccontano anche qui di un aumento: da circa 50 miliardi di dollari all’anno per il 2001 a 80 miliardi tra il 2011 e 2013 per arrivare poi quasi a 100 miliardi stimati nel 2015!
Il dispiegamento delle truppe, gli impatti negativi
La situazione appena descritta, a riguardo dei fondi per eserciti e armi, è sia conseguenza che motore di una crescita estrema negli ultimi anni delle truppe “straniere” impiegate in teatri di conflitto. Il caso eclatante è ovviamente quello dell’Afghanistan, Paese in cui il numero di soldati NATO ha avuto un picco di oltre 140.000 effettivi nel 2011 ridotti ora in poco tempo di un fattore dieci. Muovere una fetta così grande di personale militare è una grande sfida sia dal punto di vista dei costi che da quello logistico, ed inevitabilmente si porta dietro una serie di impatti (politici, sociali, militari, finanziari) non banali. Motivo per cui gli ultimi interventi diretti delle “coalizioni” internazionali sono avvenuti in maniera più leggera, da questi stessi punti di vista e non certi per i drammatici impatti sulle popolazioni, con alta preferenza per lo strumento del bombardamento aereo. Che permette di far vedere l’intervento stesso (spesso il vero obiettivo di queste scelte, molto più che la volontà di ottenere un obiettivo positivo o di miglioramento di una situazione) con meno costi e, soprattutto, un coinvolgimento minore nei tempi e nelle conseguenze negative. Esempio chiaro ancora una volta l’Afghanistan, in cui il contingente internazionale ha sofferto diverse perdite tra le proprie fila (tra il 2009 e il 2011 oltre 500 all’anno con picco di oltre 700 nel 2010) innescando soprattutto una crescita delle vittime tra le popolazioni civili. Sempre in Afghanistan, nel 2015 si sono registrati oltre 3500 morti e quasi 7500 feriti tra i civili, più del 20% dei quali bambini.
Gli impatti negativi più evidenti sono certamente quelli sulle popolazioni coinvolte nei conflitti, ma si ritorno anche sui Paesi che conducono interventi armati. Se infatti andiamo a considerare non solo il costo diretto e “puro” del dispiegamento militare otteniamo delle conseguenze spaventose sulle casse (e le società) di queste nazioni. Anche per via dei grandi numeri in gioco le stime più accurate e credibili sono state effettuate per il caso statunitense. Considerando i costi della gestione e cura dei veterani, il blocco della spesa pubblica in altri settori, le conseguenze derivanti da sempre più alte necessità di gestire la sicurezza ad esempio la sola guerra in Iraq costerà ai contribuenti statunitensi oltre 3.000 miliardi di dollari! Il moltiplicatore sarà ancora più alto per l’Afghanistan e potrebbe essere applicato anche agli interventi dei Paesi europei, minori in scala ma non per tipologia. Pure per l’Italia, che ha speso quasi 6 miliardi di euro complessivamente per il proprio contingente nel Paese asiatico, che ci vede tuttora sul campo nonostante una decisione pregressa di terminare la nostra presenza nel 2014.
E il terrorismo?
In tutto questo, i risultati ottenuti sono davvero deludenti. Anzi se l’obiettivo principale era quello di contenere, se non sradicare, il terrorismo abbiamo proprio fallito completamente. E non solo perché qualche episodio è avvenuto anche “in casa nostra” aumentando la percezione di pericolo in questo senso. Le valutazioni del Global Terrorism Index (elaborato dallo IEP su dati dell’Università del Maryland) ce lo dicono chiaramente: nel 2014 si sono avute oltre 32.000 uccisioni per terrorismo con una crescita addirittura dell’80% rispetto all’anno precedente! Non è certo l’Occidente al centro di questa vera e propria guerra visto che il 78% di tutte le vittime e il 57% degli attacchi è avvenuto in soli cinque paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan, Siria. Cinque dei quali sono protagonisti delle nuove forme di conflitto armato emerse negli ultimi quindici anni. Si stima che il costo economico globale del terrorismo sia ora ai propri massimi, con un impatto di quasi 53 miliardi di dollari annui. Una vera e propria tassa internazionale.
In definitiva i numeri che abbiamo cercato di tratteggiare ci dicono che, negli ultimi 15 anni, il mondo ha aumentato del 50% la propria spesa militare senza ottenere i risultati di stabilità e sicurezza ipotizzati da governanti e teorici della “Guerra al terrorismo”. Anzi, l’Institute for Economics and Peace di Sidney valuta che più del 13% del prodotto interno lordo mondiale viene impiegato per tentare di gestire la violenza. Oltre 13.000 miliardi di dollari all’anno che potrebbero essere utilizzati in maniera più proficua per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni.
Che sia forse arrivato il tempo di cambiare modello di intervento?