L’intervista. Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo, ci offre qualche spunto per leggere l’attuale momento di crisi internazionale
Gli eventi di Parigi e le successive reazioni della comunità internazionale hanno contribuito nel riacutizzare un dibattito mai sopito sul tema della circolazione delle armi e sulle responsabilità dell’Occidente nell’aver contribuito ad alimentare un mercato che si sta, inevitabilmente, ritorcendo su di sé. A tale proposito abbiamo interpellato Francesco Vignarca, eupiliese d’origine, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo.
Vignarca, quanto è reale la responsabilità dell’Occidente nella crescita esponenziale del mercato di armi nel mondo?
«Dal punto di vista del flusso di armamenti non ci sono dubbi sul fatto che nel corso degli ultimi anni la spesa militare sia cresciuta soprattutto in Medio Oriente e nell’Asia del sud (India e Pakistan) e, conseguentemente, si sia polarizzato il flusso tra i Paesi del nord del mondo e quelli Medio Orientali, di fatto inondando di armi le regioni più calde del pianeta. Per non parlare anche del crescente ruolo in questo commercio di Russia e Cina ».
Quali sono, oggi, i maggiori esportatori di armi e i loro acquirenti?
«I principali esportatori sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Cina, Russia e Spagna. Tra i loro acquirenti clienti troviamo: Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi, India, Pakistan».
Quali forme di controllo vengono effettuate su questo tipo di commercio?
«Si pensi che fino al Natale 2014 non esisteva un regolamento internazionale sul commercio di armi, mentre vi sono regole per il caffè e le banane… Grazie anche ai nostri forzi, dopo anni di impegno, il 24 dicembre 2014 è entrato in vigore il Trattato internazionale sugli armamenti, oggi ratificato da 70 Paesi. Un documento che ancora sta costruendo le proprie regole, privo di una reale strumentazione di controllo, ma che rappresenta un importante passo avanti sul fronte culturale e politico».
E cosa dire dell’Italia?
«Nel nostro Paese disponiamo di un sistema di controllo più strutturato grazie alla legge 185 del ’90 (“Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”). Si tratta di una normativa che dispone di una struttura e di principi molto avanzati, però nel tempo deterioratasi sia sul piano delle autorizzazioni che su quello della trasparenza. Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo incominciato ad esportare armi in Paesi non nostri alleati e, soprattutto, per oltre un terzo, a Paesi del Medio Oriente e del sud del Mediterraneo. Sempre di più, dunque, esportiamo in aree “calde” del pianeta. Notizia della settimana scorsa, ad esempio, è il trasporto di bombe partite da Cagliari e destinate all’Arabia Saudita. Le stesse bombe che poi l’Arabia Saudita utilizza nello Yemen per bombardare la gente…»
È di qualche settimana fa, tra l’altro, la vostra pubblica denuncia contro questo traffico…
«Il comunicato era stato costruito con Amnesty International dopo una spedizione di armi effettuata il 29 di ottobre. Il problema è che il nostro appello è rimasto inascoltato e che una nuova partita di armi ha preso il via la scorsa settimana. Si tratta di un atto a nostro avviso gravissimo perché l’Arabia Saudita è un Paese in conflitto, che viola sistematicamente i diritti umani. Nei suoi principi generali la Legge 185 vieta chiaramente l’export di armi verso Paesi in conflitto che violano i diritti dell’uomo… Non dimentichiamoci, inoltre, che a seguito dei bombardamenti in Yemen sono morte oltre seimila persone, tra cui almeno 500 bambini… E l’80% della popolazione non ha accesso ai principali servizi per la vita».
Che cosa chiedete all’Italia?
«Che si interrompa questa vendita, ma soprattutto che affronti il tema dell’export di armi con maggiore oculatezza. Si tratta di un commercio pericoloso che non può essere equiparato ad altre forme di business. È fuor di dubbio che il continuare ad inondare di armamenti zone “calde” del pianeta ci esponga al rischio di possibili ritorsioni e, inoltre, non risolve i problemi in quelle aree ma li alimenta. Le statistiche ci dicono che l’85% delle vittime del terrorismo è in quei Paesi, non nei nostri».
Eppure c’è chi sostiene che il rifornire di armi proprio i Paesi coinvolti nella lotta contro lo Stato islamico sia il miglior modo per battere il terrorismo.
«Perché, allora, aiutare solo quelli contro lo Stato Islamico e non altri? Cioè con quali criteri distinguiamo i buoni dai cattivi? Non dimentichiamo che parte della stessa Arabia Saudita al potere ha sostenuto l’inizio di Daesh (o Isis). E lo stesso si può dire del Kuwait e del Qatar. Si tratta di Paesi attenti solo ai propri interessi. La realtà, e ben lo ha scritto Mario Giro, sottosegretario agli Esteri e responsabile delle Relazioni Internazionali della Comunità di Sant’Egidio, è che quella a cui stiamo assistendo non è una guerra all’Occidente, ma una sfida in seno al mondo arabo per la prevalenza politica tra waabiti, alawiti, sunniti e sciiti. Lo spettro della “guerra santa” è propagandato ad hoc per ottenere dall’Occidente le armi necessarie per affermare i propri interessi».
Quale modello diverso di intervento si può proporre oggi, in alternativa a quello armato?
«Nei giorni successivi agli attentati di Parigi tutte le aziende di produzione militare sono cresciute in borsa, così come è successo negli anni dopo l’11 settembre 2001. Questo perché già erano pronti pacchetti sulla sicurezza finalizzati alla vendita e all’acquisto di armi. La spesa militare dal 2001 ad oggi è cresciuta del 50% nel mondo… Abbiamo risolto qualcosa? È oggi lecito parlare di disarmo per due ragioni. Dal punto di vista politico appare evidente come la rincorsa alla produzione e alla vendita di armi degli ultimi anni non abbia prodotto in alcun modo i risultati sperati. D’altro canto il disarmo potrebbe favorire lo sviluppo di un’economia della pace, investendo in strutture pacifiche, di riassetto sociale e civile che permetterebbero di affrontare questi problemi con maggiore efficacia, investendo sulla relazione, sulla cultura, e molto altro».
Ma non è anacronistico parlare di disarmo nelle condizioni in cui ci troviamo oggi?
«In realtà ad essere anacronistico è prospettare l’ennesima soluzione militare. Abbiamo risolto qualcosa in Libia, in Iraq, in Siria, in Afghanistan? Noi crediamo che in quelle zone vi sia un milione di persone esaltate che la pensa allo stesso modo. In realtà la consistenza numerica dei combattenti di Isis è di circa 45 mila persone, di cui 5 mila siriani e 40 mila che provengono da fuori… Stiamo parlando di 45 mila persone all’interno di un’area che ha 7-8 milioni di abitanti. È di questi 7-8 milioni che dobbiamo prenderci cura. È un po’ come pensare di combattere la criminalità organizzata, non possiamo sconfiggerla sterminandone gli attori, ma rafforzando gli anticorpi della società “buona”. Vogliamo agire nell’immediato? Smettiamo di comprare ad Isis petrolio e gas naturale… Daesh incassa mezzo miliardo di dollari all’anno dalla vendita di petrolio… Iniziamo a chiudere questo rubinetto… Se avessimo agito così già dalla metà dello scorso anno, anziché vendere armi avremmo ottenuto risultati ben maggiori degli attuali».
E dove dovremmo acquistarlo il petrolio?
«Occorre cambiare il modello di energia che vogliamo mettere a disposizione delle nostre città. Alcuni studi dimostrano che se non abbasseremo la spesa militare e la consistenza degli eserciti sarà impossibile ridurre le emissioni di inquinanti in atmosfera e invertire così il processo verso il riscaldamento globale. L’ottobre che ci siamo lasciati dietro le spalle è stato il più caldo degli ultimi 150 anni… Lo stesso ex presidente e amministratore delegato di Finmeccanica Pansa ha esortato nei giorni scorsi a non comprare più gas perché possiamo esserne autosufficienti. Occorre averne consapevolezza e volontà».
Come si colloca l’Italia tra i principali esportatori di armi al mondo?
«L’Italia è tra i primi dieci paesi al mondo, sia a livello di produzione che di esportazione, questo in particolare grazie al conglomerato di Finmeccanica. Le principali aree produttive si caratterizzano nel Torinese per quanto riguarda il settore aeronautico e nel varesotto per la produzione di veicoli di addestramento militare (M-346) e di elicotteri (l’Agusta Westland ne è tra i primi al mondo). Non a caso Varese è definita “la provincia con le ali”. Sul fronte delle armi leggere si distingue, da secoli, il Bresciano. Per quanto riguarda la cantieristica abbiamo Genova e il Levante Ligure con Fincantieri, mentre a Roma e Firenze sono concentrate produzioni sull’elettronica della difesa. Non mancano stabilimenti anche al sud, ad esempio nel pugliese dove l’aeronautica è molto forte. Nel complesso parliamo di una forza lavoro attiva, in questo settore, di 75 mila unità».
Un giro d’affari che senza dubbio incide di molto sul PIL…
«Vi incide, anche se in modo non rilevante e, soprattutto, non dinamico. Molti studi infatti dimostrano come l’investimento militare appaia bloccato dal punto di vista tecnologico, della mobilità, degli stipendi (questo per molteplici ragioni, come la segretezza ad esempio) e consenta un ritorno molto più basso rispetto ad investimenti in ambito civile in termini di profitto, di impatto sulla produzione e soprattutto di posti di lavoro. Per cui, anche in questo caso, il disarmo non sarebbe solo giusto, ma addirittura conveniente».
di Marco Gatti