In questo clima di allerta dopo i fatti di Parigi cresce la preoccupazione della società civile per l’Export di armi dall’Italia soprattutto verso il Medio Oriente. Molte Ong accusano il governo di scarsa trasparenza sui dati necessari per capire chi sono gli acquirenti del materiale bellico, cosa comprano e qual è il peso di Roma in questo mercato della guerra. Altra denuncia contro il governo è di aver depotenziato e violato la legge 185 del 1990 che vieta espressamente l’esportazione di armamenti verso i Paesi in stato di conflitto. Caso eclatante l’Arabia Saudita, impegnata nella crisi yemenita, a cui l’Italia ha venduto bombe aree. Fermare il traffico delle armi vuol dire anche non foraggiare il terrorismo, afferma Francesco Vignarca della Rete italiana Disarmo. Cecilia Seppia lo ha intervistato (clicca qui per l’audio)
R. – Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait sono tra i nostri principali acquirenti, noi vendiamo a Paesi che violano i diritti umani, inoltre tra i primi 15 Paesi a cui vendiamo, 7 sono considerati regimi autoritari e questo ovviamente dal nostro punto di vista non è positivo, perché va a fomentare situazioni già problematiche come quelle dei conflitti in Medio Oriente.
D. – E che cosa vende l’Italia a questi Paesi?
R. – La nostra industria, in particolare, è molto forte per quanto riguarda l’aeronautica militare, compartecipando al progetto europeo del caccia Eurofighter, e anche l’elicotteristica militare, grazie in particolare ad Agusta Westland, che è leader mondiale del settore. Ci sono poi altre aree legate più all’information technology per la difesa e a tutti i sistemi di difesa. C’è poi l’altra partita, quella non coperta da questa legge sull’export militare, che riguarda le armi leggere, di cui l’Italia è uno dei primi tre produttori ed esportatori mondiali. In questo caso riusciamo ancora con più difficoltà a trovare tutti i dati, però sono situazioni problematiche, perché se l’arma leggera costa poco e quindi pesa poco nelle statistiche del commercio, in realtà è quella che fa ovviamente poi il maggior numero di morti, perché è quella più facile da usare: tutti possono prendere in mano un fucile, un mitragliatore, e sparare. Chiaramente, mentre un elicottero o un cacciabombardiere è difficile da rigirare poi nel mercato nero e, comunque, necessita di una serie di infrastrutture per essere utilizzato, un’arma leggera no. Magari viene mandata anche legalmente in un posto, come è successo ad esempio nel 2011 con le 11.500 pistole e fucili che avevamo venduto, con tutti i crismi di legalità, alle forze di sicurezza di Gheddafi, poi quando succede qualcosa quelle armi chissà che fine fanno. Probabilmente quelle 11.500 pistole e fucili oggi in Libia sono in mano delle bande terroristiche, delle bande che infiammano la regione, perché è semplicissimo prenderle, spostarle, utilizzarle da un’altra parte.
D. – Parlando di violazioni, l’Arabia Saudita è un caso eclatante in questo senso, l’Italia le ha venduto bombe aeree e non solo…
R. – Assolutamente. Secondo noi, in questi mesi, in queste settimane e soprattutto in queste ore, perché proprio stanotte c’è stata un’ulteriore fornitura, alcune bombe di produzione anche italiana, sono state mandate direttamente in Arabia Saudita, secondo noi violando due principi base della legge sull’export militare italiano, che dice che non si possono esportare armi in Paesi in conflitto armato e in Paesi che violano i diritti umani. Purtroppo l’Arabia Saudita è un Paese che ha entrambi questi record negativi. Sappiamo benissimo che in quel Paese una donna, se guida, viene posta agli arresti, la stampa non è libera, e tutta una serie di altre cose. Ma soprattutto l’Arabia Saudita, in queste settimane, è coinvolta in un conflitto non regolato da nessuna risoluzione internazionale, e sta pesantemente bombardando lo Yemen, Paese in cui ci sono stati oltre 6mila morti, centinaia dei quali bambini, e oltre l’80% della popolazione non ha accesso a tutti i servizi primari.
D. – Ecco, infatti c’è un comportamento – se vogliamo – ambiguo, incoerente della comunità internazionale, per quanto riguarda l’Arabia Saudita. Ma forse c’è da fare una riflessione più ampia, proprio su come si sta comportando la comunità internazionale di fronte a questa crisi, che ormai non è soltanto mediorientale, ma è mondiale, lo abbiamo visto con gli attacchi di Parigi…
R. – Proprio l’altro ieri è uscito il Global Terrorism Index elaborato dall’Institute for Economics and Peace di Sidney, che dimostra come l’80% di tutte le vittime del terrorismo nel 2014 – vittime che sono cresciute, hanno superato le 30mila unità – l’80% si abbia in 5 Paesi che sono: Nigeria, a causa di Boko Haram, Iraq, Siria, Afghanistan e Pakistan. Anche se giustamente noi siamo colpiti dalle immagini di Parigi, perché sono vicine a noi dal punto di vista geografico e culturale, però il terrorismo non è un problema europeo o occidentale, è un problema in quei Paesi. Quindi se noi continuiamo a fomentare il fuoco della guerra e dei conflitti in quei Paesi, non ne avremo che una conseguenza negativa: in primis per quelle aree e poi di conseguenza anche per noi. E’ chiaro che la situazione del terrorismo e la situazione di quei conflitti non è derivante solamente dalle armi, ma – come anche ha detto e ripetuto più volte Papa Francesco in questi mesi – le armi servono solo a fare la guerra, le armi possono solo complicare la situazione.