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«ReArm Europe». Perché siamo di fronte ad un cambio di prospettiva

Una mia intervista per “La Civiltà Cattolica”, sul piano di riarmo europeo proposto dalla Commissione UE: numeri, impatti, prospettive di una scelta che non porterà né pace né sicurezza

Il 12 marzo, il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione sul Libro bianco della difesa contenente anche un primo riferimento al piano ReArm Europe proposto dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Nello specifico, il paragrafo 68, che fornisce un primo riscontro politico positivo al piano di riarmo – ancora non approvato né formalmente presentato – ha ricevuto 480 voti a favore, 130 contrari e 67 astenuti. Fa riflettere anche la proposta di emendamento avanzata da parte di Fratelli d’Italia di modificare il nome del piano in Defend Europe, bocciata con 517 voti contrari, 97 a favore e 56 astenuti. Il messaggio è chiaro, dunque: in Europa ci prepariamo ad una stagione di riarmo. Cosa prevede questo piano su cui si fanno stime di spesa enormi (fino a 800 miliardi di euro) e perché l’utilizzo di questo termine, «riarmo», ci pone di fronte ad un cambio di prospettiva? Ne abbiamo parlato con Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Pace e Disarmo, organizzazione partner di Ican, la Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari che nel 2017 ha ricevuto il Nobel per la pace.

«Questi 800 miliardi sono in realtà una proiezione – spiega Vignarca -. La cosa più sicura sono i 150 miliardi di prestito, che poi i Paesi dovranno restituire. Non sono soldi regalati e hanno un impatto simbolico forte, cioè quello di fare debito comune, garantito dall’Ue, per fare armi, quando prima non era proprio possibile farlo. Non si poteva fare quando lo chiedevamo per il welfare, per la Grecia, per la crisi finanziaria e adesso invece non solo si fa, ma si fa addirittura per le armi».

Non è detto, quindi, che per il piano di riarmo alla fine si spenda quanto annunciato da von der Leyen, anche perché saranno i singoli Stati europei a decidere come muoversi. «L’Italia, che ha già un debito molto forte, per esempio, farebbe fatica a trovare spazio per farsi dare questi soldi – continua Vignarca -. Dovrebbe tagliare da qualche altra parte. Spesso, però, in questi ambiti c’è un discorso di annuncio, di posizionamento dei leader che vogliono farsi vedere in una certa maniera. Il tema, tuttavia, è questo: si spinge per spendere in spesa militare, in deroga alle regole solo quando si parla di armi, e questo è grave indipendentemente da quanti saranno i soldi effettivamente messi sul piatto».

Sebbene il nome del piano proposto da von der Leyen, ReArm Europe, sia piuttosto esplicito in merito ai suoi obiettivi, la spesa per il «riarmo» globale, in realtà, è in crescita già da tempo. «Non c’è stato nessun disarmo nell’ultimo secolo – sottolinea Vignarca –Le spese militari sono cresciute e addirittura raddoppiate in maniera globale. L’unico decennio in cui abbiamo assistito ad una diminuzione delle spese militari è stato quello degli anni 90, e non a caso è stato un decennio che ci ha fatto fare dei passi avanti su tutta una serie di cose».

Il ritorno del riarmo ha una data spartiacque: il 2001, con l’attentato alle torri gemelle di New York. «È da quel momento che riparte la spesa militare – spiega Vignarca -, ancora una volta con promesse mai mantenute del tipo: “la guerra al terrorismo ci porterà più tranquillità e più sicurezza”. Negli ultimi 25 anni abbiamo vissuto una sbornia da riarmo, di militarizzazione, di deterrenza, che però non ha portato maggiore sicurezza. È da 35 anni, inoltre, che non si tiene una Conferenza per il disarmo all’interno delle Nazioni unite».

Il cambio di rotta dal punto di vista retorico degli ultimi tempi è lampante, sottolinea Vignarca. «Fino a tre anni fa si parlava di difesa, di sicurezza, di investimenti militari, adesso invece il riarmo viene esplicitato e rivendicato. Per tanto tempo, l’aumento delle spese militari era destinato agli eserciti, a nuove forme di dispiegamento, alle missioni all’estero o per la gestione delle crisi. Negli ultimi dieci anni, invece, abbiamo visto un aumento della spesa militare, soprattutto direzionato alla spesa per le armi». E i dati, soprattutto quelli dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, il Sipri, parlano chiaro. «La quota di spesa militare mondiale per le armi è cresciuta – continua Vignarca -. Siamo sempre stati intorno al 20 o al 22 per cento, mentre ora stiamo andando verso il 30 per cento. I paesi europei della Nato, negli ultimi 10 anni, sono passati da spendere il 18% delle loro spese militari per le armi, al 32 per cento».

Di questo aumento di spesa, però, sono in pochi a beneficiarne. «Non ci guadagna nessun Paese: la prospettiva per cui si fa questo tipo di investimenti per avere anche un ritorno economico è errata – chiosa Vignarca -. Abbiamo fatto tutta una serie di analisi sul comparto militare e quello della spesa bellica ha il minor ritorno economico, rispetto a tutti gli altri. Se investissimo gli stessi soldi in energia pulita, in sanità, educazione, addirittura tagliando le tasse, il ritorno economico sarebbe maggiore».

Ma quanta consapevolezza c’è in merito al tema del ritorno economico? Vignarca spiega: «Quando intervengo in alcune conferenze, chiedo sempre al pubblico qual è la percentuale di Pil che viene dall’industria militare in Italia, in base a quello che leggono sui giornali. Qualcuno dice oltre il 15 per cento, moltissimi tra il 10 e il 15 per cento, quasi tutti dal 5 al 10 per cento, una buona parte tra il 3 e il 5 per cento e quasi nessuno dice l’uno per cento. Ma è proprio l’uno per cento, anzi meno. L’industria militare in Italia, e non solo, è residuale. È una cosa economicamente secondaria e nel nostro Paese impiega meno dello 0,5 per cento della forza lavoro».

Nei giorni dell’annuncio del piano ReArm Europe, dall’altra parte dell’oceano, a New York, si riunivano partner della Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari, per il terzo meeting dei Paesi parte del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw). «Nel suo discorso alla prima sessione, Melissa Parke, direttrice esecutiva della campagna Ican, lo ha detto in modo chiaro: in questo momento buio e difficoltoso non dobbiamo abbassare le aspettative – racconta Vignarca, che ha partecipato ai lavori -. È proprio nel momento in cui c’è l’emergenza più grossa che le aspettative vanno rialzate. Non possiamo più accontentarci della non proliferazione delle armi nucleari. Dobbiamo rilanciare la loro totale eliminazione perché è solo così che ci salviamo. O eliminiamo le armi nucleari o, come diceva Kennedy, saranno queste armi di distruzione a eliminare noi dalla storia».

Per Vignarca, il lavoro dell’Ican e il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari rappresentano un vero cambio di paradigma su cui anche Papa Francesco ha invitato a riflettere. «Papa Francesco ci ha invitato nel 2017 in Vaticano per fare un simposio sulle armi nucleari. Ha capito che il trattato non è solo una norma, una cosa burocratica e formale – il Vaticano è tra i firmatari -, ma è il segno di una nuova vitalità di quel pezzo di mondo, sia come Stati che come società civile, che non crede a questo continuo riarmo. Non è un caso che il Papa, in quella occasione, abbia definito immorale anche il solo possesso delle armi nucleari, non più unicamente l’utilizzo. E questo è importantissimo perché rappresenta un vero cambio di prospettiva».