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Armi italiane in Ucraina, a tre anni dall’invasione della Russia non sappiamo ancora quante ne abbiamo mandate

Si viaggia su circa 2,5 miliardi di forniture belliche, ma in Italia manca trasparenza, spiega l’Osservatorio Milex sulle spese militari. Mia intervista per Wired a cura di Paolo Mossetti

Armi italiane in Ucraina, quante ne abbiamo inviate? Roma ha mantenuto un profilo molto basso e opaco riguardo al sostegno militare all’Ucraina, senza chiarire costi, tipologia e quantità di materiali inviati. Secondo l’Osservatorio sulle spese militari italiane (Milex) manca un quadro ufficiale completo, rendendo difficile valutare l’impatto del supporto italiano. Il problema non è solo quanto vengano svuotati gli arsenali per fornire armi a Kyiv, ma quanto questo svuotamento comporti costi indiretti, cioè la necessità di riempire gli arsenali con nuove forniture, così come vuole la Nato da almeno due anni a questa parte e come impone la logica di confronto crescente con la Russia.

Secondo le stime derivanti dalle informazioni reperibili, le spese dirette per le armi italiane in Ucraina sostenute da Roma potrebbero superare i 2,5 miliardi di euro, sommando il valore delle cessioni dirette e la quota italiana di circa 1,5 miliardi (che in parte poi “rientra”) destinata all’European Peace Facility. Quest’ultimo è uno strumento promosso dall’Unione europea per il sostegno alla difesa in contesti di crisi. Ma il dato più significativo, secondo Milex, riguarda le spese per il ripianamento delle scorte militari, nascoste nei programmi di riarmo nazionali.

 

Costi nascosti

Negli Stati Uniti, nonostante l’enorme spesa militare, esiste un controllo rigoroso su ogni euro speso, mentre in Italia questa trasparenza manca”, ci racconta al telefono Francesco Vignarca, co-promotore dell’Osservatorio Milex con Enrico Piovesana. Milex si avvale della collaborazione e la struttura operativa del Movimento Nonviolento.

L’aumento dei costi per i programmi delle batterie SAMP/T e dei sistemi Grifo, annunciato la scorsa primavera dall’Esercito italiano, sembra indicare una connessione non dichiarata tra gli invii di armi all’Ucraina e il riarmo italiano, spiegano da Milex. Questo incremento potrebbe derivare sia da ricalcoli finanziari tipici dei programmi d’armamento (dove si approva una prima tranche minima, per poi essere quasi obbligati a procedere con una seconda), sia dalla necessità di rifondere le scorte dopo aver inviato materiale in Ucraina.

Secondo il Kiel Institute, citato da Milex, l’Italia avrebbe inviato circa 1,5 miliardi di materiali militari, ma i costi totali includono anche trasporti, ripianamento delle scorte e contributi ai fondi europei. Considerando questi fattori, il costo complessivo per l’Italia dal 2022 supera i 2,5 miliardi.

Le forze armate italiane, non essendo coinvolte in conflitti maggiori da decenni, hanno un ricambio di armamenti limitato. Tuttavia, l’invio di sistemi d’arma in un teatro di guerra come l’Ucraina aumenta drasticamente questo turnover, portando a costi aggiuntivi non dichiarati. Oltre ai 2,5 miliardi stimati, vanno considerati dunque anche i costi di rifornimento delle scorte da ripianare, che rappresentano, secondo Milex, un ulteriore onere non trasparente per il bilancio pubblico.

I costi indiretti dell’Ucraina

Per quanto riguarda le spese documentate per le scorte, spiccano i 14,5 milioni di euro destinati all’acquisto di munizioni di artiglieria, inseriti nel Decreto Lavoro del 2023.

Tuttavia, sia la Corte dei Conti che il Servizio Bilancio del Senato hanno sollevato dubbi in merito, in occasione del rinnovo dell’invio di armi all’Ucraina, chiedendo chiarimenti sui maggiori fabbisogni legati alla sostituzione dei materiali ceduti.

Tra le voci principali di costi indiretti identificati da Milex ci sono dunque i missili antiaerei e lanciamissili MBDA Italia: 808 milioni di euro per sostituire i vecchi Stinger americani inviati a Kyiv. Oppure i missili anticarro Spike: 51 milioni di euro e un secondo da 92 milioni (aprile 2024, attualmente sospeso) per rimpiazzare le scorte trasferite. Spese ben più consistenti riguardano invece gli obici semoventi RCH 155: 1,8 miliardi di euro per sostituire gli FH 70 e i M109 ceduti all’Ucraina, e le batterie missilistiche Samp/T di nuova generazione: 500 milioni di euro ciascuna, con missili Aster 30 dal costo unitario di 2 milioni di euro.

Questa crescita esponenziale delle spese militari solleva interrogativi sulla sostenibilità finanziaria e sulla trasparenza delle operazioni legate alla difesa. Questa opacità, secondo l’analisi di Vignarca, potrebbe essere stata usata per evitare critiche sia dai militaristi (contrari all’invio di materiale vecchio) che dai pacifisti (contrari all’invio di armi), ma anche per spiegare in modo generico i programmi di riarmo senza dettagli specifici.

Come sono influenzati i programmi di riarmo?

Non è chiaro in che misura i programmi di riarmo nazionale, come l’acquisto recente di missili VSHORAD o obici semoventi Rch155, siano legati agli invii di armi all’Ucraina, ma il legame esiste ed è evidenziato nei decreti, nelle approvazioni parlamentari e nel Documento Programmatico Pluriennale (Dpp) della Difesa. Sebbene si affermi che gli invii non comportino oneri per lo Stato, non si sa se si tratta di materiale vecchio o nuovo, né come ciò influisca sulla prontezza delle forze armate italiane.

Senza sapere quali armamenti abbiamo inviato è difficile fare valutazioni, insomma, e non solo da una prospettiva pacifista: cosa e quanto è necessario ripianare?

Per esempio, inviare missili obsoleti potrebbe richiedere l’acquisto di nuovi sistemi: ma senza dettagli precisi, non si può capire l’impatto reale. “L’argomento iniziale di non rivelare informazioni per non favorire i russi è infondato“, spiega Vignarca, “perché poi sul campo i russi sanno benissimo quello che c’è e quello che è stato inviato. E però in realtà in questo modo non è possibile fare una valutazione sensata, ma non da parte nostra, da parte dell’opinione pubblica, ma da parte anche del Parlamento, su cosa stai andando a ripianare”.

E se le forze armate italiane restassero sguarnite?

Non è chiaro se il governo italiano abbia una strategia per evitare che ciò accada, anche perché non ci sono informazioni trasparenti su quali siano i livelli minimi di dotazione necessari, dicono quelli di Milex. L’associazione però tende a escludere scenari catastrofici, e l’aumento della spesa militare e dei programmi di riarmo (come l’acquisto di F-35, Eurofighter, carri armati e batterie missilistiche) sembra più legato a una retorica di potenziamento generale, alimentata dalla guerra in Ucraina e dalla percezione di una minaccia russa, che a una reale necessità di ripianare le scorte cedute.

Questa strategia di espansione militare, tuttavia, che include anche l’aumento degli effettivi, non è stata adeguatamente discussa: “Si sfrutta il contesto di conflitto per giustificare decisioni che vanno ben oltre il semplice sostegno all’Ucraina, senza chiarire perché siano necessari così tanti armamenti o quali siano gli obiettivi strategici”, dice Vignarca.