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Oggi in sette piazze per dire: noi pacifisti non ci arrendiamo

Oggi la mobilitazione nazionale: «Tante piazze quanti sono i colori dell’arcobaleno», spiega il coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo. Intervista per “l’Unità” a cura di Umberto De Giovannangeli.

Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, partner della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Premio Nobel per la Pace 2017): “Fermiamo le guerre, il tempo della Pace è ora”. È lo slogan della Giornata di mobilitazione nazionale di domani (oggi per chi legge): “7 piazze italiane accoglieranno e rilanceranno la posizione della società civile che chiede percorsi di pace, disarmo giustizia sociale e climatica”. I pacifisti non si arrendono?
No di certo! Noi vogliamo continuare a lavorare per la pace e idealmente ci mettiamo nello stesso solco di idee, prospettive, proposte che hanno caratterizzato i movimenti sociali fin dall’inizio di questo secolo. Per noi è sempre valido lo slogan “Un altro mondo è possibile”, e ovviamente quel mondo possibile che sogniamo e vogliamo costruire è un mondo in pace. Per fare questo sono importanti le giornate come quella del 26 ottobre. Che diventano snodi cruciali soprattutto se accompagnano un’azione quotidiana di campagne, mobilitazioni, proposte politiche, iniziative che dimostrano alle istituzioni e ai partiti che la maggioranza della società civile e dell’opinione pubblica vuole davvero un cambio di rotta. La situazione ci sembrava matura, e dunque abbiamo convocato le sette piazze, come i sette colori dell’arcobaleno, che caratterizzeranno questa giornata di mobilitazione nazionale. Importante notare che non si tratta solo di una piattaforma che punta a rispondere all’emergenza dei conflitti e delle guerre in giro per il mondo, che ovviamente vogliamo fermare. Ma di un momento in cui è fondamentale anche la parte costruttiva, la parte propositiva, il grido collettivo che sottolinea come non possiamo più permetterci indebolire la pace e i suoi strumenti. È in gioco il futuro di tutti.

Gaza, Libano, il Medio Oriente è in fiamme. Più che un rischio, la guerra regionale è già realtà. E la comunità internazionale sta a guardare.
E poi ci sono anche tutte quelle guerre che decidiamo, in un certo senso, di ignorare e che hanno impatti quasi più devastanti di quelle visibili. Pensiamo al Sudan, al Congo, a tante situazioni di violenza strutturale in Asia e Sudamerica oltre che le catastrofi in corso da decenni in Libia, Siria, Yemen. Non solo la guerra regionale, ma anche la guerra come malattia endemica e senza fine è ormai una realtà. Il problema, a mio parere, è duplice: non solo la comunità internazionale rimane a guardare scegliendo di non intervenire per prevenire nuove escalation e, con il tempo sanare le situazioni di conflitto conclamato e violento. Ma, quando interviene, lo fa con una dinamica di ulteriore militarizzazione e con il solo approccio di interesse strategico per gli Stati e per i grandi poteri economici. Non certo con la prospettiva, che invece caratterizza i movimenti pacifisti e nonviolenti, di protezione delle persone e salvaguardia delle vite dei civili. Oltre che la volontà di intervenire per costruire la pace occorre anche cambiare la modalità di intervento: perché la pace positiva che noi vogliamo costruire non è certo equivalente agli accordi tra potenze o alle tregue non risolutive che i grandi leader vendono come pace, ma che in realtà perpetuano condizioni di vantaggio per pochi sfruttando la condizione problematica di molti.

Il movimento pacifista non ha paura delle parole. E denuncia il genocidio in atto a Gaza. Basta questo per essere accusati di antisemitismo.
Il movimento per la pace che si basa su una prospettiva di politica nonviolenta non ha paura della verità, e non deve averla! La stessa parola “nonviolenza” è la traduzione del satyagraha gandhiano, che significa proprio “forza della verità”. Per cui noi con coerenza denunciamo le violenze strutturali, le militarizzazioni, le scelte di guerra, le prevaricazioni, le politiche criminali che portano a massacri, pulizie etniche, genocidi… Diversamente da chi applica ogni giorno dei doppi standard (stracciandosi le vesti per le scelte violente di quelli che considerano nemici e ignorando le scelte belliche di quelli considerati amici) noi abbiamo sempre e da sempre condannato qualsiasi forma di violenza. Indipendentemente dall’origine, pur ovviamente entrando poi anche nel merito delle questioni perché non ci interessa solo un posizionamento astratto, idealistico, superficialmente etico… ma vogliamo portare questo rifiuto della violenza ad una dimensione politica e strutturale. Per tale motivo la nostra voce è spesso silenziata: non si adatta facilmente ad un dibattito urlato e tifoso, che non punta a costruire soluzioni reali per le motivazioni di base dei conflitti, ma vuole solo schierarsi in un banalizzante e certe volte squallido gioco delle parti.

Il movimento pacifista da che “parte” sta?
Al movimento pacifista italiano ed internazionale serio non interessa se a scegliere la guerra o politiche di militarizzazione sia Putin, Netanyahu, le amministrazioni americane o gruppi armati di varia natura… Perché l’unico “schieramento” che abbiamo sempre scelto è quello delle vittime e delle popolazioni civili. E non ci sono affinità storiche, politiche o prese di posizione precedenti che ci impediscono (e ci impediranno) di esplicitare il rifiuto delle scelte di violenza di chiunque. Ritengo però che la serietà e l’importanza della nostra posizione vada oltre la coerenza specifica, in ogni situazione di conflitto, verso il rifiuto degli strumenti violenti. Se si vuole risolvere una situazione di insicurezza globale che sta continuando a far crescere la “guerra mondiale a pezzi” occorre anche affrontarne le cause strutturali. Le guerre scoppiano certamente perché qualcuno sceglie la strada delle armi, ma sono preparate, favorite, instradate anche da decisioni preventive di natura globale e sistemica.

Quali?
Ad esempio, quella della continua crescita delle spese militari, oltreché del continuo rafforzarsi di retoriche e discorsi di guerra. Da qui il nostro impegno non solo per portare la pace nei conflitti e situazioni di violenza strutturale aperti, ma anche per ridurre i fondi destinati ad armi ed eserciti sia a livello nazionale (abbiamo lanciato da qualche giorno in Italia la campagna “Ferma il riarmo”) sia a livello globale. Perché solo spostando le risorse (e quindi gli impegni concreti personali ed istituzionali) su strumenti che davvero affrontano le minacce globali che l’umanità ha di fronte (come il cambiamento climatico, la crisi sociale, la necessità di rafforzare istruzione e sanità) potremo costruire un futuro migliore. Cioè un futuro di pace.

Dal Medio Oriente all’Ucraina. L’Europa sembra conoscere solo la “diplomazia delle armi”.
Purtroppo, sì, e personalmente è una grande fonte di delusione e preoccupazione. L’Unione Europea avrebbe potuto mettere a disposizione la propria esperienza di “progetto di pace” per dare prospettive diverse a quelle, fallaci, di una continua crescita della spesa militare e della militarizzazione. Invece ha scelto di accodarsi ai giochi dei grandi interessi armati e delle egemonie, non riuscendo quindi ad essere né un attore credibile né un attore efficace per cercare di risolvere i problemi che ci entrano anche in casa. Pensiamo ad esempio alle varie conseguenze problematiche che proprio le situazioni in Medio Oriente ed in Ucraina hanno comportato: flussi di persone, crisi umanitaria riverberante, fallimento politico nel rimanere sulla linea del diritto internazionale e della protezione dei diritti umani, impoverimento generale ed indebolimento delle economie.…

In tutto questo, l’Europa?
In questi due anni e mezzo i politici che stanno guidando l’Unione Europea hanno subito pienamente l’influenza indebita dell’industria militare e hanno scelto la strada più semplice, la coazione a ripetere vuote e pericolose retoriche belliciste. Ma continuare ad evocare una “pace giusta” senza capire che la giustizia non è solo quella astratta delle banalizzazioni che la guerra comporta è un grave errore. Così come l’aumento della spesa militare mondiale, raddoppiata negli ultimi 25 anni, non ha portato a maggiore sicurezza o pace, anche la scelta di aumentare gli investimenti militari in seno all’UE (pensiamo al Fondo per la difesa o al nuovo commissario sulla difesa o a miliardi che vengono erogati per favorire la produzione dell’industria militare) non porterà certo un vantaggio per il nostro continente. Si instaura così anche un circolo vizioso di persone sempre più disilluse dalla politica che si gettano nelle braccia delle soluzioni populistiche o di chi sa bene come manipolare masse scontente per il proprio tornaconto.

Due anni di governo della destra, Che bilancio dal punto di vista del movimento pacifista e disarmista?
Quando avremo tutti i dettagli della legge di bilancio appena presentata vedremo se gli annunci di aumento della spesa militare saranno davvero concretizzate, visto che la situazione finanziaria del nostro Paese non è certo florida. Per il resto però non vedo grandi differenze rispetto a prima: gli accenti sul discorso possono essere differenti ma la sostanza è rimasta uguale. Già con i governi precedenti l’industria militare era stata favorita, le spese per gli armamenti aumentate, le soluzioni di diplomazia e negoziato messe da parte, le armi venivano viste come un feticcio capace di risolvere ogni problema. È proprio il clima politico e culturale complessivo, in particolare in Europa come abbiamo detto, a tarpare le ali a qualsiasi ipotesi di strada di pace e nonviolenza. Per questo serve davvero una nuova mobilitazione popolare che parta dalla società civile. Anche nei confronti della politica noi manterremo la nostra coerenza, perché abbiamo sempre criticato quelle che riteniamo scelte sbagliate indipendentemente dal colore del governo. Certo ora i contatti diretti tra quello che definisco il complesso militare industriale e finanziario e i decisori politici è più marcato ed evidente. Per questo staremo ancora più attenti. Di questa situazione credo che abbia una grossa responsabilità anche il sistema dei media, che già dall’epoca del Covid ha iniziato ad abbracciare un linguaggio militarizzato e non ha saputo reagire all’imposizione di un discorso complessivo bellicista. Scegliendo deliberatamente di non ascoltare le serie e concrete voci per la pace ma di assecondare chi fa il tifo per la guerra o chi accetta per proprio tornaconto questa prospettiva.