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La necessità di un impegno collettivo per la pace

Mio editoriale per “La Stampa” del 13 agosto 2024: Serve con urgenza un cambio di paradigma, perché la guerra non è la «sconfitta del pacifismo» ma di una politica che non riesce a farsi carico delle richieste di pace di tutta l’Umanità

 

Nel bel dibattito che La Stampa sta ospitando sulla ripresa del bellicismo come cifra della stagione politica del mondo (anche se le guerre devastavano tanti luoghi anche prima che tornassimo ad accorgercene noi) ritengo utile ed opportuno portare, dopo quello della filosofia e della politica, il contributo dello sguardo di chi prova ad essere quotidianamente operatore di Pace e disarmo. Che nasce da esperienze, competenze, cammini concreti ben lontani dalla caricatura sminuente di «idealisti naif e capaci solo di slogan» ripetuta con scorrettezza in maniera funzionale e certi interessi armati.

Partiamo dalla base: che cos’è la Pace? Come la possiamo «definire»? Di certo non come la intendevano gli antichi romani (e purtroppo come la intendono diversi politici ed analisti oggi) un semplice intervallo tra guerre, in cui le porte del tempio di Giano venivano chiuse. Considero sempre un po’ straniante che, dopo secoli di progresso del pensiero, l’unico principio che alcuni vorrebbero immutabile è quello del presunto ottenimento della pace tramite la preparazione alla violenza e al conflitto armato («si vis pacem, para bellum») derivandolo dall’esperienza di chi ha sempre cercato solo brutale dominio. Con un concetto di pace più vicino al deserto di quella eterna, che ad uno sbocciare pieno della vita.

La Pace che dobbiamo cercare è invece «positiva», non solo in senso valoriale ma proprio definitorio perché si realizza con una compresenza piena di elementi (di «pilastri») capaci di garantire a ciascuna persona una prospettiva di realizzazione. Ce lo ha insegnato Johan Galtung, il teorico principale della «Pace positiva», parlando di un processo continuativo, trasformativo e creativo che punti a massimizzare equità ed empatia, riducendo nel contempo trauma e conflitto.

Cosa comporta questo punto di partenza? Prima di tutto un profondo cambiamento concettuale che ribalta l’idea e la percezione degli spazi e dei «vuoti». Non si parla più di intervalli di «non-guerra», ma al contrario di un percorso faticoso di miglioramento delle condizioni umane che viene rallentato o fatto regredire da episodi bellici. Non sembri un dettagli meramente teorico: questo sguardo aiuta a focalizzare quello che è veramente importante e da perseguire, trasformando quel pensiero sotterraneo non detto, e falso, secondo cui la condizione umana naturale sarebbe quella della guerra. E anche la Storia andrebbe raccontata più come il divenire di vita e salvezza, che di decisioni di morte.

Questo approccio possiede un altro grande pregio: se la Pace è un completamento armonico di pezzi diversi (come in un mosaico, ricordava sempre il venerabile don Tonino Bello) e ne sono antitesi non solo i conflitti armati ma anche le violenze strutturali più o meno latenti, allora non possiamo solo invocarla o aspettarla come Godot. Allora va costruita nel quotidiano lavorando su più piani collegando le «grandi questioni» internazionali (noi lo facciamo nelle campagne globali, da quella contro le armi nucleari a quella per la riduzione delle spese militari) al vissuto personale e comunitario che ci sollecita ogni giorno. Per la Pace lavorano non solo quelli che si occupano di armi, conflitti armati, trattati internazionali… ma anche quelli che si impegnano per inclusione, ambiente, cooperazione, sviluppo sostenibile, salute. Cioè tutti coloro che utilizzano la Pace come prospettiva sociale e politica da alimentare su due grandi direttrici: quella della giustizia e dell’uguaglianza (non solo in freddo senso «tecnico», ma collettivo) e quella dei diritti umani (non solo quelli personali, ma anche sociali).

In definitiva la Pace esiste solo se ciascuno fornisce un contributo positivo alla creazione di una società più giusta in cui la vita di tutti «valga» con pienezza: quella «isola che non c’è ancora» evocata da Marco Tarquinio nel suo intervento rifacendosi all’intuizione di Tommaso Moro. Che non era un giovane sognatore di belle speranze ma uno dei più importanti politici della sua era (non caso scelto dalla Chiesa Cattolica come patrono degli statisti…).

Come possiamo realizzare questo grande affresco ideale? Con una scelta ben precisa: quella della «Nonviolenza politica». Senza farsi ingannare dalla mistificazione del termine (nell’originale di Gandhi è il satyagraha, la «forza della verità») perché non si tratta di vuote petizioni di principio ma di scelte concrete. Che non partono solo da un rifiuto dei metodi violenti (la Pace deve essere un mezzo, non solo un fine, altrimenti poi si giustificano barbarie e doppi standard) ma individuano come risolutiva la creazione di contesti positivi strutturali; altrimenti il conflitto non lo trasformi ma lo alimenti, e noi lo sappiamo bene grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni che operano in contesti di guerra e crisi umanitarie. Non è certo il mondo del pacifismo ad essere «salottiero»…

Si può dire anzi che chi opera nel movimento per la Pace e il disarmo (forma strutturale della politica nonviolenza) sia il vero «realista», non certo coloro che ripetono come un mantra che la pace si fa con le armi. Per caso questa formula ha funzionato, in particolare negli ultimi anni? Assolutamente no: dall’inizio del Millennio la spesa militare è raddoppiata (e con essa i vantaggi di quel complesso militare-industriale-finanziario vero nemico della pace e della vita, perché sfrutta la guerra per propri interessi) ma guerre e vittime sono aumentate in maniera drammatica. Il feticcio della deterrenza (anche e soprattutto di quella nucleare, teoria indimostrata che ogni giorno ci fa rischiare la stessa esistenza umana) non funziona: si vive bene e in «Pace positiva» solo se ci si sente protetti nei diritti e in un armonico contesto cooperativo con chi si ha intorno.

Serve con urgenza un cambio di paradigma, perché la guerra non è la «sconfitta del pacifismo» ma di una politica che non riesce a farsi carico delle richieste di pace di tutta l’Umanità.