Una mia intervista per il sito e il magazine online di Attac Italia
Francesco Vignarca è il Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, partner della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Premio Nobel per la Pace 2017) e promotrice insieme a Senzatomica della mobilitazione “Italia, ripensaci” per l’adesione del nostro Paese al Trattato di proibizione delle armi nucleari TPNW. Si occupa da oltre 15 anni di produzione e commercio di armi, di spese militari e di acquisizione di sistemi d’arma e ha seguito fin dai primordi la campagna ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari). Una voce importante del movimento pacifista. Lo abbiamo intervistato (qui il link all’articolo originale)
La guerra sembra essere tornata la dimensione del presente e del futuro, rimodulando secondo la propria traiettoria l’organizzazione della società. Che ne pensi?
La guerra non è mai andata via. Ciò che si è modificata, soprattutto dopo l’esplosione del conflitto in Ucraina e la precipitazione degli eventi a Gaza, è la percezione della guerra come evento molto più prossimo e destabilizzante, in particolare per la popolazione europea. Inoltre siamo in presenza, per quanto riguarda in particolare l’Ucraina, di un conflitto che agisce direttamente sul territorio europeo e che rende reale anche la minaccia nucleare. Se le diverse guerre e i conflitti scoppiati in questi ultimi decenni nel mondo potevano essere considerati una sorta di guerre “specifiche”, ovvero con perimetri e motivazioni in qualche modo circoscritte, ora la guerra viene percepita come fenomeno di disequilibrio e di incertezza globale. In qualche modo, si rende manifesta l’insipienza di continuare a perseguire il modello di sicurezza globale pensato e agito dagli Usa e fondato sulla preminenza militare, senza nessuna considerazione della diseguaglianza globale che attraversa il pianeta.
Naturalmente, tutto questo non è partito solo dallo scoppio della guerra in Ucraina, poiché il terreno era stato arato e fertilizzato da tempo, da una parte con il progressivo riarmo da parte degli Stati, dall’altra con la progressiva costruzione di una cultura dell’emergenza che favorisce la penetrazione dell’idea che la sicurezza si basi sulla forza e sulla sconfitta del “nemico”.
Se ci si pensa, anche l’emergenza Covid è stata declinata come una guerra e raccontata con linguaggio militare: il virus come nemico esterno da combattere, l’unità della nazione per fronteggiare la minaccia, il “patriottismo” del personale medico e infermieristico in prima linea etc. Se prevale la cultura militarista, è agevole descrivere i pacifisti come “gli amici di Putin”, mentre è evidente come Putin sia stato davvero un grande amico del comparto industriale, militare e finanziario, che sulla guerra vive e prospera.
Ucraina e Gaza mettono in evidenza il declino forse irreversibile del progetto europeo. Oggi c’è chi dice che l’unica possibilità di invertire la rotta e di declinare una nuova unità a livello continentale sia nel costruire un esercito europeo…
Il problema dell’Europa è che il progetto su cui, con tutte le contraddizioni interne, è nata non ha più una traiettoria. L’Europa nasce come progetto economico e commerciale ma anche con l’anelito di costruire una casa condivisa dentro un continente che era stato attraversato da due drammatiche guerre mondiali. L’idea di costruire un perimetro comune che, per quanto armato, bandisse l’opzione della guerra al proprio interno ha avuto per lungo tempo i suoi effetti positivi, rendendo per decenni l’Europa un luogo più sicuro per le popolazioni di quanto lo sia mai stato nei secoli di storia precedente.
Proprio poggiando su queste basi, l’Europa avrebbe potuto e dovuto ritagliarsi un ruolo diverso dentro i conflitti odierni: quello di un continente che sceglie un ruolo forte e politico di diplomazia internazionale per il superamento dei conflitti.
Così non è stato e l’Europa, invece di collocarsi come alternativa politica al modello di sicurezza militare imposto dagli Usa, ha ricoperto un ruolo ancillare e subalterno.
Oggi chi rivendica la nascita di un esercito europeo propone qualcosa che non ha alcun senso neppure dal punto di vista militare. Tra l’altro, l’attuale riarmo dei paesi europei è stato realizzato acquistando la quasi totalità delle armi dagli Stati Uniti: sarebbe interessante sapere dai fautori di un forte esercito europeo come coniugano questa contraddizione.
L’esercito europeo è un escamotage taumaturgico per chi non vuole prendere atto che dentro la traiettoria militarista e guerrafondaia l’Europa semplicemente perde sé stessa, mentre può ritrovarsi solo dentro un percorso di radicale inversione di rotta rispetto alla narrazione dominante.
Dentro questo quadro, nel nostro Paese viene messa sotto attacco la legge 185/90 sul controllo del commercio e dell’esportazione di armi.
La legge 185/90 è da sempre sotto attacco. Pur non essendo una legge pacifista, ha rappresentato per lungo tempo una normativa che garantiva trasparenza e che in qualche caso è riuscita anche ad imporre misure determinanti, come quando riuscì a bloccare le licenze di esportazione di armi verso l’Arabia Saudita che le utilizzava nei bombardamenti sulla popolazione dello Yemen.
È una legge da sempre osteggiata dal comparto industriale, militare e finanziario che fa profitti con le guerre. Oggi l’attacco è divenuto esplicito e diretto, grazie alla combinazione perfetta di un clima politico e culturale molto più militarista e di un governo di destra che ne condivide la traiettoria.
L’elemento tuttavia interessante è stata la mobilitazione della società civile, del mondo cattolico e dei movimenti sociali in difesa della legge, vista come uno dei simboli che dà cittadinanza alla cultura di pace che attraversa la società.
In questa situazione, come sta il movimento pacifista?
È un periodo senz’altro difficile e faticoso, perché l’attacco alla cultura della pace non è mai stato così forte. La crisi della globalizzazione liberista ha fatto riemergere i nazionalismi e oggi l’idea che i problemi si risolvano solo con la forza militare (il famoso “Si vis pacem para bellum”) rischia di attecchire, grazie a diversi fattori.
Il primo è legato alla fragilità sociale, ovvero all’impoverimento di un’ampia fascia di popolazione che, dovendo concentrare tutte le proprie energie sulla fatica della quotidianità, la rende più esposta alla narrazione bellicista.
Il secondo è legato al deterioramento del mondo dell’informazione, in particolare quella televisiva, che porta avanti un martellamento senza precedenti in direzione della cultura della guerra, chiudendo letteralmente ogni spazio alle voci del pacifismo.
Il paradosso è che, mentre il movimento pacifista sta lavorando meglio che in passato, allargando le proprie connessioni (ad esempio sulla consapevolezza che il riarmo pregiudica il welfare) e producendo nuove convergenze, il livello di pressione contro la cultura della pace non è mai stato così alto.
Per cui ci ritroviamo forse più capaci di pensare ed agire, ma dobbiamo farlo dentro un contesto oggi molto più complicato.