I DATI ICAN. I nove stati dotati di armi atomiche hanno fatto crescere i propri arsenali di oltre il 13% nel 2023. La crescita maggiore è degli Stati uniti (+18%), più degli altri otto messi insieme
Una delle conseguenze principali dell’invasione russa dell’Ucraina e del conflitto conseguente è stato l’aumento dell’uso retorico della minaccia nucleare, insieme al recupero dell’elemento della distruzione di massa, e connessa deterrenza, come perno delle politiche di difesa.
Sembrano davvero lontane le dichiarazioni di gennaio 2022 dei cinque paesi «formalmente» nucleari in cui si affermava come «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta». Ma anche quanto affermava – sempre nel 2022 – il G20 (con una posizione poi riecheggiata successivamente in forme più blande): «L’uso, o la minaccia di uso, di armi nucleari è inammissibile».
QUANDO sottoscrivono tali dichiarazioni gli Stati pensano in prima istanza solo alle «minacce nucleari» degli altri, ma nel concreto ogni potenza nucleare sta da tempo rafforzando i propri arsenali sia in termini di dispiegamento che – soprattutto – di modernizzazione. Lo dimostrano i crudi numeri.
Secondo un rapporto dell’Ican, International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (campagna globale premio Nobel per la Pace 2017) nel 2023 i nove Stati dotati di armi nucleari hanno speso 10,8 miliardi di dollari (cioè il 13,4%) in più per i propri arsenali rispetto al 2022. Raggiungendo un totale di 91,4 miliardi (oltre 173mila dollari al minuto o 2.900 al secondo).
Gli Stati Uniti hanno registrato l’aumento maggiore (pari al 18%) con una spesa complessiva di 51,5 miliardi di dollari superiore a quella della somma degli altri paesi nucleari. Seguono la Cina (11,9 miliardi) e la Russia (8,3). Ican pubblica l’analisi ormai da cinque anni, periodo nel quale la spesa globale per le armi nucleari è aumentata di un rimarchevole 34%. Evidenziando come il ruolo sempre più pericolosamente centrale di tali armi di distruzione di massa nel deteriorato scacchiere delle relazioni internazionali costituisca una tendenza non episodica.
Tutti i paesi nucleari hanno aumentato la propria spesa, alcuni a un ritmo più elevato: gli Stati uniti sono responsabili del maggiore incremento finanziario (16,1 miliardi di dollari) dal 2019 al 2023; nello stesso periodo il Regno unito ha registrato un aumento di 2,4 miliardi, seguito dalla Cina con 1,4 miliardi. In termini percentuali il balzo maggiore è del Pakistan: il 60% in più in cinque anni.
Questo enorme flusso di denaro, seppur limitato rispetto al totale della spesa militare mondiale di cui costituisce meno del 4%, ha avuto un effetto anche sulla configurazione degli arsenali. Secondo i dati della Federation of American Scientists (Fas) rilanciati nell’annuario del Sipri di Stoccolma, a gennaio 2024 il numero globale delle testate nucleari è poco oltre le 12.100, in leggera flessione.
Ma con circa 9.500 testate pronte a un uso potenziale (quindi non ritirate o in magazzino) e ben 3.900 dispiegate su missili e aerei: oltre 60 in più rispetto a gennaio 2023. Il che evidenzia la stessa tendenza preoccupante già vista per le spese, così come il fatto che circa 2.100 delle testate schierate siano state mantenute in stato di massima allerta operativa su missili balistici.
UNA SITUAZIONE per la prima volta non limitata solo agli arsenali di Russia e Stati uniti, come avviene da decenni, ma anche a quello cinese. Il futuro appare ancora più scuro con India, Pakistan e Corea del Nord che stanno cercando di ottenere la capacità di schierare testate multiple su missili balistici, cosa che Russia, Francia, Regno unito, Stati uniti e, più recentemente, Cina hanno già fatto.
Ciò porterebbe al rapido aumento delle testate effettivamente schierate, portando a una capacità distruttiva di un numero significativamente maggiore di obiettivi. Intanto continua a diminuire la trasparenza (reciproca) sugli aggiornamenti e l’operatività degli arsenali nucleari, inquinando qualsiasi possibilità di percorsi di disarmo o non proliferazione. Minati anche delle accresciute ipotesi di «condivisione nucleare» tra Russia e Bielorussia in risposta al nuclear sharing della Nato da decenni attivo nei territori di Italia, Germania, Belgio e Paesi bassi.
Quale lezione trarre da questa fotografia? L’aspetto più allarmante è lo slittamento da una minaccia meramente «retorica» o di posizionamento politico a una più concreta, basata su scelte che stanno rafforzando gli arsenali e una possibile escalation. Scelte che non sono solo colpa di un «irresponsabile» Putin, come testimoniano le gravi dichiarazioni recenti di Stoltenberg su una Nato che discute internamente nuove forme di dispiegamento delle proprie armi nucleari. Senza che ciò sia messo sul tavolo del dibattito democratico: una situazione ormai inaccettabile, visto il pericolo di distruzione globale che abbiamo di fronte.