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Comprare armi non ci salverà dalle guerre

Nonostante la retorica di media e politica abbia ormai sdoganato la necessità di un’economia bellica, il raddoppio della spesa militare mondiale ha fatto solo aumentare l’insicurezza globale, il numero di conflitti e delle vittime

Mio editoriale per “Il Segno”, il mensile della Diocesi di Milano

 

Negli ultimi due anni, dalla criminale e scellerata invasione russa dell’Ucraina in poi, abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione copernicana nel discorso politico relativo all’uso della forza militare. Anche politici di primo piano hanno addirittura sdoganato l’idea che sia necessaria una “economia di guerra”. Il punto è significativo sotto due aspetti. Da una parte l’abbandono della moderazione del linguaggio, con lo sdoganamento di una retorica bellicista che pervade tutte le scelte. Dall’altro l’insistenza su aspetti di natura industriale e finanziaria più che di effettiva implementazione di azioni legate agli eserciti. Ormai domina l’idea e la pratica di una “salvezza” che deriverebbe dagli armamenti, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. 

Gli ultimi dati sulla spesa militare mondiale, relativi al 2022, ci parlano di un record storico di oltre 2.240 miliardi di dollari, con il 30% dedicato ad acquisto di armi. Se ci limitiamo ai Paesi europei membri della Nato la spesa è stata di 345 miliardi di euro, il 30% in più rispetto al 2013. Anche nel nostro continente queste scelte hanno favorito soprattutto l’industria delle armi: nel periodo 2019-2023 c’è stata una crescita del 94% del procurement militare rispetto al periodo 2014-2018, con il 55% delle importazioni originato dagli Stati Uniti. 

Cosa significano questi numeri? In primis che la tendenza all’aumento delle spese militari non è nata due anni fa, ma è un processo di lungo periodo. Gli stessi strumenti utilizzati dall’Ue per mandare aiuti militari miliardari all’Ucraina erano già in pista ben prima dell’invasione, soprattutto con fondi destinati al sostegno dell’industria. Per cui dal 2022 stiamo sperimentando solo un’accelerazione, non una novità, capace però di far deragliare le politiche verdi dell’Unione europea sfruttando immediatamente le iniziative comuni di finanziamento che con fatica erano state pensate dopo la crisi della pandemia globale. Le industrie militari, anche quelle di casa nostra, stanno registrando ordini record e per questo volano in Borsa, facendo contenti gli investitori che (nella maggior parte dei casi) sono sempre gli stessi: mega fondi finanziari che già controllano grandi parti della nostra economia. Ormai dobbiamo davvero parlare di un complesso militare-industriale-finanziario capace di controllare le scelte globali. Non a caso è proprio su questi aspetti che si focalizzano le ricette (più retoriche che politiche) di soluzione dei conflitti; o almeno di quelli che “vogliamo vedere” perché sembrano più minacciosi (altri, soprattutto quelli in Africa, sono invece funzionali agli interessi di sfruttamento dei Paesi più ricchi). 

Vengono quindi dimenticate le vere minacce che ci sono davanti, nonostante la Storia ci abbia insegnato che la guerra è la soluzione peggiore per risolvere le controversie sociali e politiche a causa del terribile dolore che infligge alle per sone che la subiscono. Le guerre possono essere evitate solo agendo sulle cause che le motivano e attraverso percorsi di diritti universali e di progresso scientifico e sociale come strumenti per costruire società più giuste. 

Oggi siamo sempre più consapevoli (o dovremmo esserlo) che l’umanità per sopravvivere deve considerarsi come parte della natura e, di fronte alla crisi ecologica e al possibile collasso della biosfera, deve pensare a politiche di progresso che per essere tali devono rinunciare all’idea di una crescita infinita con sfruttamento delle risorse della Terra, quando tutto sul pianeta è finito. Si tratta di quella «ecologia integrale per il pieno sviluppo del genere uma

no» descritta da papa Francesco nella sua Laudato si’. Contrapposta drasticamente a scelte di militarismo che invece avvantaggiano pochi e quindi, favorendo la crescita di disuguaglianze, sgretolano il sistema sociale e pure l’ecosistema in cui far crescere la pace. Che oggi può essere figlia solo di scelte capaci di coniugare disarmo ed ecologia, attraverso politiche articolate di nonviolenza definita dal Papa «stile di una politica per la pace» nel Messaggio dell’1 gennaio 2017. 

In questa simbiosi tra crisi sociale e crisi ambientale che provoca violenze e guerre multiple, una politica che punti a una strada di pace dovrebbe riflettere sugli effetti negativi di un militarismo che si presenta come un “valore” positivo. E influenza tutte le scelte politiche con la pretesa che i conflitti siano risolti attraverso l’uso della forza armata. Un feticcio astratto spacciato per realismo: il raddoppio dall’inizio della spesa militare mondiale è stato accompagnato da un aumento non una diminuzione! dell’insicurezza globale, del numero di conflitti e delle vittime (soprattutto civili). Armarci di più crea una spirale di guerra e di violenza, al contrario di quanto viene riproposto retoricamente su molti mezzi di informazione da coloro che usano scorciatoie di consenso e si mettono a servizio dei profitti dell’industria militare. 

La scelta più opportuna, oltre che rispettosa della vita dei popoli, dovrebbe dunque essere una riduzione delle spese militari e della produzione di armamenti, con l’obiettivo di creare un equilibrio di sicurezza prima a livello regionale e poi globale. A questo aspirano le Nazioni Unite con le loro molteplici richieste di disarmo volte a evitare una corsa agli armamenti che porterebbe solo futuri conflitti. Richieste che rimangono al momento inascoltate, perché i decisori politici privilegiano le scelte che avvantaggiano gli interessi armati di pochi al posto del benessere di tutti. 

Perché il modo migliore per costruire una pace “positiva” (che non si limita quindi alla mera assenza di guerra) è promuovere processi di sicurezza comuni tra i Paesi che facilitino la multipolarità, la fiducia reciproca, il rispetto della sovranità, la cooperazione e il sostegno reciproco tra gli Stati per raggiungere una sicurezza condivisa.