Per la ricerca annuale Swg, l’87% degli italiani è contro politiche militariste, un record da 15 anni a oggi. Francesco Vignarca (Rete pace e disarmo): « È il frutto di due anni di conflitto ucraino». Intervista su Avvenire a cura di Luca Liverani.
Nove italiani su dieci sono in disaccordo con le politiche “interventiste” e la partecipazione alle missioni militari e Nato: 87% contro 13%. Un dato schiacciante, in crescita da 15 anni, ma che nel 2023 ha raggiunto un record. A certificare un orientamento – noto ma non rappresentato dalla politica – è Radar-Osservatorio sui valori degli italiani e sulla società, l’indagine condotta dal 1997 dall’istituto di ricerca Swg, pubblicata il 9 gennaio. Un dato che non sorprende chi, nel movimento per la pace, da tempo critica la corsa al riarmo e alla soluzione militare delle crisi. Non solo per motivi etici, ma perché i fatti dimostrano – dall’Ucraina a Gaza – che la guerra non risolve i problemi, ma li aggrava. E a perdere sono tutti, tranne l’industria militare. «Il problema – dice Francesco Vignara di Rete italiana pace e disarmo – è tradurre questo sentire diffuso in scelte politiche. Qui la società civile deve avere un ruolo fondamentale».
Secondo Swg dunque «l’andamento del trend mette in luce nettamente il distacco dell’opinione pubblica dalle posizioni attive in campo militare». Se nel 2020 il 25% era convinto che l’Italia ha il diritto-dovere di intervenire nel mondo, dopo l’invasione dell’Ucraina il dato si è dimezzato: 13%. E forse sarebbe ancora più basso alla luce delle devastazioni a Gaza, visto che le 1.616 interviste del sondaggio sono state fatte tra il 20 settembre e il 13 ottobre 2023. Prima cioè che la risposta di Israele all’aggressione di Hamas si scatenasse in modo devastante.
Un dato confermato da un altro sondaggio, diffuso a metà dicembre da Quorum/YouTrend per Sky Tg24: alla domanda «Quali sono i tre temi che considera prioritari», prima per il 76% degli intervistati è «la pace e la sicurezza globale», poi per il 67% «il cambiamento climatico», infine «la crescita dell’economia » per il 56%.
Dati su cui riflette Francesco Vignarca, analista del commercio mondiale delle armi e impegnato nella campagna contro le armi atomiche. «L’opinione pubblica italiana è storicamente restìa agli interventi militari – dice il responsabile delle campagne di Rete pace e disarmo – e in Europa è una delle più “pacifiste”». L’87% degli italiani è nonviolento? «Chiaramente no. Il dato riflette anche una fetta di opinione pubblica più utilitarista, probabilmente vicina ai partiti sovranisti e populisti, convinta che l’Italia è meglio che “si faccia gli affari suoi”». Per Vignarca però «queste posizioni sono il frutto di quanto successo negli ultimi due anni: la guerra in Ucraina ci ha portato una valanga di informazione, anche se spesso superficiale, che però ha fatto capire agli italiani che non è vero che “più armi si inviano e prima vinciamo”. L’aumento della spesa militare non ha prodotto più sicurezza, come ha ripetuto il Papa lunedì al Corpo diplomatico».
Piuttosto, la crescita della spesa militare «si è tradotto in aumento delle vendite di armi in paesi diversi da quelli coinvolti dalla guerra». Un trend confermato il 27 dicembre dal Financial Times e il 4 gennaio dal Sole24Ore: l’industria delle armi vive un boom in borsa perché ci sono grandi aspettative per il futuro… «Al settore non interessano la democrazia e i diritti, ma il profitto. E a Gaza si ripete, moltiplicato all’ennesima potenza, il copione della “guerra al terrorismo” già fallita tragicamente in Afghanistan e Irak. Non sono certo soddisfatto a ricordare “noi l’avevamo detto” – dice Vignarca – ma è così».
Ma se la maggioranza degli italiani rifiuta le tesi militariste, perché i partiti non ne tengono conto? «È vero, i politici sono sempre attenti ai sondaggi, tranne a questi. Perché gli elettori si schierano a priori, votano spesso pensando a interessi personali, e la politica estera è trascurata in Italia: nella conferenza stampa della premier è stata quasi assente. I partiti sanno che questi temi non spostano voti. E andare controcorrente rispetto alle posizioni atlantiste, non solo in Italia, è rischiosissimo».
Questi dati però dicono che «una politica diversa è possibile, ma serve un lavoro continuativo assieme alla società civile. Che non può più dire “la politica è una cosa sporca”. Bisogna spiegare che la pace non è solo giusta, ma è conveniente. Greenpeace ha dimostrato con una ricercacome investire in sanità, cultura, welfare invece che in difesa produca più Pil e più lavoro». Il ministro Crosetto dice che la pace si fonda sulla sicurezza: «Sì, ma non la sicurezza armata: la giustizia non si fa con le bombe. Il pacifismo non è moralista, è realista. La sfida è tradurre tutto ciò in politiche nuove».