Il governo Meloni motiva la modifica della legge 185 con la necessità di riportare l’export sotto l’ala della politica, sottraendolo a una decisione solo burocratica. Ma è già così
Mio articolo per il Manifesto
Il parlamento discuterà il disegno di legge del governo che riforma la storica legge 185 del 1990 sulle modalità dell’export militare italiano. E noi, organizzazioni della società civile, lo contrasteremo. L’obiettivo è chiaro: un ulteriore sostegno all’industria militare.
Quello che il governo propone sono la creazione di un Comitato interministeriale (che valuti il rilascio di licenze di esportazione al posto dell’attuale Uama, l’Unità per l’autorizzazione in materia di armamento) e la riduzione delle tempistiche di rilascio delle licenze. Interventi che l’industria militare chiede da due o tre anni.
Non è una questione legata al solo governo Meloni o alla presenza di un ministro come Crosetto: se oggi l’industria militare vive una congiuntura favorevole, è da qualche anno – e da qualche governo – che si prepara il terreno, con gran parte delle forze politiche favorevoli al cosiddetto government to government, ovvero alla firma di contratti di vendita tra governi che poi si traducono direttamente in commesse militari per le aziende.
È una lunga marcia, che oggi arriva al cuore della questione: quello dell’export. Perché qui non si tratta solo di spese militari, di quanto cioè l’Italia spende per le armi; qui si tratta della destinazione delle nostre armi. Dalle analisi compiute come Rete Pace e Disarmo, sappiamo che negli ultimi anni le autorizzazioni alla vendita hanno riguardato sempre più spesso i paesi del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente.
La legge 185 del 1990 era riuscita a «spostare» l’invio delle armi italiane, dietro a svariati scandali negli anni ’70 e ’80, da destinatari problematici a paesi alleati, Nato e Ue. Ora avviene il contrario ed avviene perché la 185 è stata già erosa. Ma non erosa del tutto, da cui la necessità governativa di una riforma per facilitare ulteriormente l’export di armi. Una necessità che nasce proprio dalle vittorie della società civile, riuscita negli ultimi anni a far votare al parlamento prima la sospensione e poi il blocco dell’invio di bombe e missili ad Arabia saudita ed Emirati arabi. I meccanismi previsti dalla legge 185 erano stati semplicemente applicati. E questo ha creato la fibrillazione: l’invio delle armi poteva essere davvero bloccato.
La motivazione della riforma data dal governo è la necessità di riportare sotto una decisione politica quello che adesso dipenderebbe da una decisione burocratica. In realtà la decisione politica c’è già: è la linea di indirizzo con cui il governo può intervenire, oltre alla relazione continuativa con l’Uama attraverso riunioni periodiche interministeriali e le indicazioni della difesa, degli esteri, dello sviluppo economico e della stessa presidenza del consiglio. Tanto che proprio in questi anni si è registrato un aumento dell’export militare in termini di quantità e di qualità: è cresciuto il numero dei paesi acquirenti e sono cresciute le autorizzazioni perché i governi hanno fatto una scelta politica.
Attenzione però: la legge 185 è avanzata e innovativa nella sua capacità di controllo, ma liberarsene non basterà. Negli ultimi trent’anni l’Italia ha aderito alla Posizione comune europea del 2008 e al Trattato sul commercio delle Armi (Att) del 2013, nato dalle pressioni della società civile e con norme ancora più stringenti.
Il Comitato interministeriale immaginato dal nuovo disegno di legge può dare indirizzi politici ma non può essere quello che nella pratica verificherà che le richieste di licenze siano congrue ai criteri previsti. Violazioni della legge nazionale e internazionale – che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto o paesi che violano i diritti umani – non possono essere superate schermandosi dietro «l’indirizzo politico».
Questo governo tenta a livello nazionale di superare la legge 185, ma non può andare oltre i criteri cui l’Italia ha scelto liberamente di aderire a livello internazionale. Per questo il tentativo di riforma puntella la sua strategia: non solo valutazioni politiche, ma anche economiche e di posizionamento della nostra industria. Ovvero favorire gli affari armati permetterebbe lo sviluppo e garantirebbe posti di lavoro, lo stesso discorso che una certa politica fece quando riuscimmo a bloccare l’invio di armi che sauditi ed emirati sganciavano poi sullo Yemen. Affari e vantaggio economico, ancora una volta, verrebbero prima dei diritti umani e della legge internazionale.