Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, ci parla della guerra in Ucraina, del rischio di conflitto nucleare, delle alternative possibili. Che però vanno costruite, perché “costruire la pace è un po’ come costruire una casa, devi avere gli strumenti, i materiali, le competenze, e serve una preparazione”. Intervista per Economia Circolare
a cura di Emanuele Profumi
Francesco Vignarca è sicuramente un interlocutore di primo piano se si vuole capire e riflettere sull’aspetto più grave e pericoloso per l’intero pianeta che la guerra in Ucraina ha riportato drammaticamente all’attenzione dell’opinione pubblica. La minaccia nucleare, infatti, è un aspetto costitutivo di questo conflitto armato, anche se la maggior parte degli osservatori e dei commentatori di questa guerra non sembrano voler cogliere fino in fondo le implicazioni e i rischi che si corrono nel sottostimarlo o minimizzarlo. Astrofisico di formazione, Vignarca è attualmente il coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, oltre che essere attivo nel Movimento nonviolento e in Pax Christi, e un collaboratore della cooperativa e della rivista “Altraeconomia”. Ma soprattutto si è occupato attivamente della “Campagna per la messa al bando delle armi nucleari”, insignita nel 2017 del Premio nobel per la Pace.
La specificità della guerra in Ucraina
Davanti al ritorno alla barbarie della politica di potenza e dei nazionalismi, come economiacircolare.com stiamo cercando di pensare le alternative di pace portate dagli unici strumenti che possono farle crescere, ossia dai “mezzi pacifici e nonviolenti” di cui parla anche Johan Galtung. Perciò vorremmo capire anche con lei, prima di tutto, se la guerra in Ucraina ha una sua specificità, oppure se ricorda altre guerre nel tempo e nello spazio. A cosa ci troviamo davanti, esattamente?
Qualsiasi guerra, in fin dei conti, ha una sua specificità, perché ha un portato di motivazioni politiche, economiche, sociali, storiche e culturali che la rendono diversa. Ciò che, però, è uguale in tutte le guerre è la morte, la distruzione e, soprattutto, da questo secolo in poi, il grande impatto sui civili. Ormai, infatti, le guerre sono sempre più combattute in contesti urbani e popolati, e di conseguenza la gran parte delle vittime sono civili. Quindi, a grandi linee e al di là delle responsabilità e delle specificità, non ci vedo una grande differenza rispetto alle altre. Tutte le varie guerre degli ultimi anni sono il sintomo di un sistema mondiale non più in equilibrio, o meglio, meno in equilibrio di quanto non fosse in precedenza. Il difficile contesto in cui vanno comprese, è quello relativo al difficile equilibrio su scala globale, con nuove potenze all’orizzonte e nuove dinamiche economiche. La scala di ogni conflitto dipende da qual è il substrato generale d’insicurezza globale che le fa da cornice. In questo senso la definizione di Papa Francesco di “guerra mondiale a pezzetti” mi sembra calzante. È chiaro che nella Repubblica centro africana (un altro posto dove c’entra la Russia) ci sono delle dinamiche, degli impatti e delle visibilità diverse, rispetto a questa guerra convenzionale, di grandi dimensioni, come non se ne vedevano da molto tempo. L’unica vera differenza che vedo in Ucraina, che in parte giustifica lo sbilanciamento dell’attenzione che abbiamo verso questa guerra, nonostante esistano delle guerre molto più sanguinose, che non si vogliono guardare (perché non esistono “guerre dimenticate”, ma solo “guerre ignorate”), è l’aspetto dell’escalation nucleare. Perché tutte le guerre che esistono nel mondo, in questo momento, non presentano lo stesso pericolo legato alla dinamica nucleare presente in Ucraina. Da questo punto di vista, perciò, va trattata in modo peculiare, per tenere conto non solo del fatto che è in campo una grande potenza convenzionale, ma soprattutto che si tratta di una grande potenza nucleare. Perché quello che potrebbe accadere può essere davvero devastante, sia se consideriamo il contesto specifico, sia se allarghiamo lo sguardo alle conseguenze su un più vasto coinvolgimento di altre potenze nucleari. Questo dimostra la rilevanza di quanto abbiamo detto per anni sull’urgenza del disarmo nucleare, nonostante ci sia stata una sottovalutazione generale del problema. Le minacce, le contro minacce, la modernizzazione dell’arsenale nucleare che le potenze che lo possiedono stanno facendo, ci dimostra che il pericolo esiste ancora. Diversamente da tutti gli altri pericoli, anche se statisticamente basso, è comunque inaccettabile. Anche se lo scoppio di una guerra nucleare avesse anche solo una possibilità dello 0,5%, sarebbe comunque troppo. Perché anche una piccola percentuale sarebbe inaccettabile, dato che l’impatto che avrebbe questo esito finale sarebbe devastante e ingestibile da parte del mondo, nel suo complesso.
Gli scenari possibili in Ucraina, in questo senso, sembrano essere due: il bombardamento della centrale di Zaporizhzhia o il lancio di un missile con testata nucleare.
Oggi la dinamica potrebbe essere questa: ti bombardo un posto che produce energia, e ti lascio così al freddo, anche perché so che l’impatto sull’ambiente circostante sarebbe molto forte. Sicuramente la realtà delle centrali nucleari ucraine è importante. Tuttavia bombardare una centrale nucleare civile, che ha un fallout peggiore rispetto ai bombardamenti che stiamo vedendo e ad altri tipi di bombardamenti (su fabbriche chimiche, per esempio), è comunque diverso dal lancio di una testata nucleare. La centrale nucleare non è stata progettata per essere una bomba: la testata avrebbe un impatto decisamente più devastante. Personalmente, non penso che sarebbe nell’interesse russo bombardare le centrali nucleari. Anche perché il fallout non si ferma al confine. Insomma, bombardare Zaporizhzhia, per quanto devastante, non è paragonabile all’escalation nucleare che si produrrebbe con il lancio di una bomba, anche là dove essa fosse “tattica” o limitata. Anche dal punto di vista del controllo militare, strategico, complessivo, l’utilizzo della testata nucleare toglierebbe quel tabù che, sino ad oggi, è stato preservato, facendo così saltare qualsiasi ipotesi teorica sviluppata attorno alla strategia militare della deterrenza. E lo dico anche se non la trovo convincente. Infatti, la deterrenza, come tutte le minacce, funziona solo se l’arma nucleare non viene usata, se non la metti in pratica. Perché altrimenti vale tutto, e si aprono gli scenari più devastanti. Qualche anno fa l’Università di Princeton ha messo in piedi una simulazione degli scenari devastanti dove in poche ore si arriverebbe ad avere centinaia di migliaia di morti: la bomba che avrebbe innescato questo processo veniva individuata in una bomba nucleare “tattica”. Non è necessario, come si pensava durante la guerra fredda e com’è stato rappresentato magistralmente nel film “War games” (1983, ndr), un attacco dove le potenze nucleari inviano tutti i missili allo stesso tempo, per arrivare ad un’escalation devastante per tutti.
L’insostenibilità e il rischio della minaccia nucleare
Nell’opinione pubblica italiana, e non solo, sono in molti a considerare la situazione proprio dalla prospettiva della deterrenza, e quindi a sottostimare il pericolo nucleare. Quello che non vedono, mi sembra, è il fatto che ci troviamo in un contesto dove esiste non solo la possibilità ma proprio una certa probabilità che venga usata l’arma nucleare. Non è così?
Sì, è così. Infatti se si considerano anche solo le minacce, si può vedere queste come sono cambiate nel tempo. Prima di questa guerra, nessuno avrebbe minacciato l’uso della bomba nucleare. Si dicevano cose del tipo: “Me le tengo perché sono una sicurezza”, o “Sono un’assicurazione”. Anche il contesto in cui queste minacce vengono fatte dovrebbe essere considerato con più attenzione. Se fai esternazioni in una situazione non di conflitto, puoi fare qualsiasi tipo di ragionamento relativo alla dottrina nucleare. Ma all’interno di un conflitto come questo aumentare l’allerta nucleare come ha fatto già Putin da febbraio, oppure insistere su cosa farebbe la Russia in caso di attacco sul suo territorio, o altre affermazioni del genere, ossia fare delle minacce concrete rende sicuramente più concreta la possibilità di reale utilizzo dell’arma. Anche se fossero solo degli stratagemmi tattici. Come ci ricordano anche molti studi del passato, gli arsenali nucleari sono abbastanza obsoleti. Hanno delle falle molto importanti anche dal punto di vista delle catene di comando. Hanno delle possibilità di subire degli attacchi hacker. Questo tipo di attacco, per esempio, potrebbe essere più probabile, rispetto ad un errore o a una decisione di un vertice civile o di una nazione nucleare. Chi continua a sottostimare il pericolo nucleare mi sembra sia ancorato all’immagine di una generica situazione idealizzata. Che è poi lo stesso gravissimo errore di chi è a favore della guerra. Si semplificano e si banalizzano le situazioni. Non stiamo di fronte a due bambini che litigano. Esistono una molteplicità di attori in campo. Lo stesso vale per risolvere una guerra. Si pensa che esistano delle dinamiche semplici di causa ed effetto. Ma non è mai così. Neanche nella vita lo è mai. Mi ripeto: quello che non possiamo fare in questo momento, davanti a questa situazione, è fare errori di calcolo o approssimazioni su una cosa così pericolosa come l’arma nucleare. Se gli errori che facciamo ipotizzando un certo esito per le azioni che facciamo, nella nostra vita personale, prima o poi si riescono ad affrontare, lo stesso non vale per l’escalation nucleare. Il contesto mondiale è problematico, visto il fallimento del NPT (Trattato di non proliferazione nucleare, ndr), che avrebbe dovuto permettere teoricamente alle cinque potenze di avere legittimamente le armi nucleari e impedire agli altri Stati di averle, così come di iniziare un percorso di disarmo nucleare che, però, non è mai iniziato. E questo è avvenuto nonostante il 5 Gennaio del 2022 è stato affermato da queste potenze che una guerra nucleare non potrà mai essere combattuta perché nessuno potrà mai vincerla. Quindi c’è una consapevolezza della situazione, ma si continuano a fare minacce, e si continua a considerare l’arma nucleare un’assicurazione e qualcosa da includere al momento in cui si aggiornano gli arsenali. Tutte le potenze nucleari lo stanno facendo. Noi italiani siamo coinvolti in questo processo, perché a breve arriveranno i B61-12 anche in Italia (testate nucleari statunitensi di nuova generazione collocate dalla Nato in Beglio, Germania, Olanda, Turchia, ndr). Non si tratta solo di teoria, di una guerra immaginata da menti brillanti, e non è un gioco di scacchi. È un pericolo reale e devastante. Come dicono quelli dell’Atomic Science sono “minacce esistenziali per l’umanità”. Non per il Pianeta, che continuerà la sua vita per migliaia di anni. È l’umanità che non potrebbe sopportarne le conseguenze. Il pericolo nucleare è sempre più alto. Ecco perché davanti a tutti quegli elementi di ammodernamento e gestione, a tutte le problematiche presenti, che già conoscevamo, non dobbiamo sottovalutare anche solo un cambio di retorica (ammesso che di questo si tratti). Insomma, ci troviamo davanti a un cambiamento quantitativo e qualitativo delle minacce relative all’uso del nucleare.
È come se la guerra in Ucraina ci riportasse, in tutta la sua drammatica attualità, alla condizione che viviamo sin dal secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale: avere la spada di Damocle sulla testa e trovarci nell’urgenza di affrontarla, per uscire dal pericolo permanente che rappresenta. Con la guerra in Ucraina, sempre più chiaramente e inevitabilmente, si sta tornando ad affrontare le possibili conseguenze della minaccia nucleare. Ossia, come nel caso della crisi ecologica, ci troviamo davanti ad una minaccia reale e drammatica per l’intera umanità. Forse la vera novità della guerra in Ucraina è il fatto che, finalmente, stiamo tornando a considerare questa minaccia per quella che realmente è?
Finalmente lo torna a vedere il grande pubblico, o alcuni policy makers o analisti. Noi non abbiamo mai abbandonato questa consapevolezza. L’Atomic Science dice ormai da diversi anni esattamente quello che hai appena affermato: le minacce per l’umanità sono il cambiamento climatico e le armi nucleari. Che, per certi versi, sono anche collegate. Per cui il mondo della pace, della giustizia globale, della cooperazione, del tentativo di migliorare la giustizia e la sicurezza mondiale, con mezzi pacifici e nonviolenti, come hai accennato all’inizio, ce l’aveva ben chiaro. Non a caso abbiamo fatto partire un’iniziativa umanitaria, la nostra campagna ICAN, che quest’anno compirà 10 anni, che nel 2017 ha portato al trattato per la proibizione delle armi nucleari, facendoci avere per questo il premio Nobel per la pace. Trattato entrato in vigore nel 2021. Il che ha permesso, l’anno scorso, di realizzare la prima Conferenza degli Stati partner a Vienna, e di scrivere un piano di azione futura di 50 punti. Azioni molto concrete che permetterebbero di fuoriuscire dalla minaccia nucleare. Per noi, insomma, il problema è sempre stato presente. Sono i politici e i media che sottovalutano situazioni realmente problematiche e minacciose. Alcuni di loro, tra l’altro, sono più interessati a mantenere un certo sistema di potere piuttosto che prendere sul serio questo tipo di minacce. L’esempio più classico sono le armi tattiche del nuclear sharing in Europa, che sono presenti sul vecchio continente sin dagli anni ‘60 (prima atomiche poi nucleari), per volontà degli Usa. Ad un certo punto della guerra fredda avevamo circa mille testate di questo tipo. Poi, dopo la caduta del muro di Berlino, è stato lo stesso Pentagono a dire che non gli interessava più averle. Perché si riteneva che lo scenario fosse cambiato politicamente e tecnologicamente. Non solo non erano più una necessità, ma costituivano un problema e un rischio. Negli anni ‘90 si pensava che le avessero eliminate tutte. Invece, negli anni 2000, salta fuori che queste bombe ci sono ancora. Per molti anni sono state tra le 300 e le 350, e adesso meno di un centinaio. Come è possibile? È molto probabile che siano stati i governi dei Paesi ospitanti, tra cui l’Italia, che hanno chiesto di poterle tenere sul territorio. Invece di chiedere la loro eliminazione, perché tenersele avrebbe comportato, tra le altre cose, rimanere ancora un target, hanno voluto mantenerle. Perché chi ce l’ha è “un alleato più alleato degli altri”. Fai parte del “Nuclear Planning Group”, sei considerato qualcosa di più dei partner che non ce l’hanno. Alcune persone non vedono nell’arma nucleare quel pericolo immenso che invece è, e che per questo dobbiamo cercare di eliminare. Per loro è un modo per ottenere una situazione di maggiore potere o prestigio. Se uno guarda le strategie e le posture legate alle armi nucleari, e le politiche che vi sono alla base, condividono tutte un’idea centrale: tenersi l’arma nucleare garantisce la sicurezza di chi la possiede. Se viene conservato un feticcio di questo tipo, allora non saremo mai in grado di eliminarla. E, soprattutto, non ci si può lamentare se altri cercano di averla. La Nato, per esempio, afferma: “Vorremmo un mondo senza armi nucleari, e siamo un’alleanza non nucleare. Ma ci terremo le armi nucleari di alcuni dei Paesi che sono parte dell’Alleanza, finché gli altri non le elimineranno”. Come fanno i bambini piccoli: se smetti prima tu, allora smetterò pure io. Il punto è che se davvero si crede che garantisca qualcosa, allora non si può sostenere che gli altri non ce l’abbiano e che non pensino lo stesso. Questo è molto pericoloso: fa ripartire un’escalation e una proliferazione nucleare inaccettabile. Prima del NPT, si pensava che entro la fine del secolo scorso ci sarebbero stati 50 o 60 Paesi con l’arma nucleare. L’Italia aveva un programma per svilupparla. Il Sud Africa ne aveva un altro, sostenuto da Israele, e poi ci ha rinunciato. In quel momento era vista come una nuova arma di cui tutti si dovevano dotare per darsi uno status. Ad un certo punto si è percepito quanto questo fosse troppo pericoloso e ci si è fermati. Qualcuno, però, poi se l’è sviluppata lo stesso (India, Israele, Pakistan). L’NPT ottiene un successo importante in quel momento, perché ha bloccato in modo molto importante la tendenza a diffondere l’arma nucleare. Purtroppo, oggi come oggi, stiamo tornando all’idea che bisogna diffonderla: alcuni se la vogliono creare e altri la prendono in prestito da chi già ce l’ha. Abbiamo il programma nord coreano e quello iraniano. Un paio di anni fa circolavano delle indiscrezioni in cui si affermava che l’Arabia Saudita aveva chiesto al Pakistan di avere il nuclear sharing. Come fanno gli Usa con la Turchia, l’Olanda, etc. Dopo decenni in cui gli Usa lo fanno, come si può negare che il Pakistan lo faccia a sua volta? Bisognerebbe far diventare l’arma nucleare un tabù. I discorsi che si sentono in giro dall’anno scorso, su quanto sia esagerato chi dice che l’arma nucleare è una minaccia concreta, affermano che non esista “un’eccezionalità dell’arma nucleare”. Vogliono convincerci che è solo un po’ più potente e che i grandi Paesi riusciranno a gestirla. Invece si tratta di altro, come ho cercato di chiarire.
Vorrei tornare su un punto che mi sembra decisivo. Tra i discorsi mediatici e politici che vengono fatti in proposito, ci si richiama spesso all’arma nucleare tattica: come se fosse qualcosa di legittimo e sostenibile, benché estremo. Perché in realtà non è così?
Questo avveniva anche prima della guerra in Ucraina. Ho come la sensazione che per molti la guerra in Ucraina abbia creato una serie di fenomeni, come per esempio l’aumento delle spese militari. Cosa che, invece, è molto precedente a questa guerra. Basti pensare ai profitti generati con le guerre, anche prima della guerra in Ucraina. Questa guerra ha reso più evidenti alcune cose e accelerato alcuni processi in corso, non li ha creati. L’abbassamento della soglia del pericolo nei confronti della bomba nucleare tattica, così come la sua legittimazione dal punto di vista tecnologico (basti pensare alla realizzazione delle B-61 12), si legano alla possibilità che queste bombe hanno di regolare la potenza di distruzione. Si può andare da pochi decimi di kiloton, a decine di kiloton. Si pensa, perciò, che è meno impattante della bomba di Hiroshima. Senza considerare, però, che può essere anche molto più devastante di quella bomba. Poi viene sottolineato che non sarà più “a caduta”, ma verrà guidata. Ossia che la possiamo indirizzare nel punto giusto. Viene anche sottolineato che “ha potere di penetrazione”, ossia che si puo’ far scoppiare sottoterra. Tutto questo abbassa la soglia del pericolo e genera una confusione tra arma nucleare “tattica” e arma nucleare “piccola”. La bomba diventa “tattica” a partire dal contesto in cui si usa. In altre parole, non è il tipo di bomba che definisce se un’arma nucleare è tattica o pure no, ma il contesto di utilizzo e la strategia militare. Se prima qualsiasi testata nucleare veniva pensata come troppo pericolosa e potenzialmente responsabile dell’escalation devastante, perché quando ti cade in testa nessuno si domanda se era tattica o strategica e ci si appresta a rispondere sullo stesso piano, oggi siamo invischiati in una situazione subdola. Negli ultimi anni si è fomentato questo abbassamento della soglia. Tutto ciò, infatti, blocca qualsiasi prospettiva di disarmo completo. Il che va bene alle grandi potenze, che anche se affermano che vogliono un mondo libero dalle armi nucleari, in realtà se le vogliono tenere, perché garantisce loro di essere al vertice delle potenze militari, generando, in realtà, un problema generale. Per tornare ad un vero disarmo nucleare, che è quello che la maggioranza delle popolazioni vuole, dovremmo tornare all’idea di wargames degli anni ‘80, quando il computer dice al ragazzino del film: “Questo è uno strano gioco, perché per vincere c’è solo un modo: non giocare”. Proprio quello che dobbiamo continuare ad affermare senza tregua. Affiancandolo anche alla semplice costatazione che se spendi 100 miliardi di dollari all’anno sul nucleare di guerra, non hai i soldi per il climate change, per elaborare percorsi che riducono le diseguaglianze, per aumentare le risorse contro la fame e la sete, etc. Che poi, tra l’altro, sono alla base delle guerre, perché sono le ragioni socio-economiche ad essere alla base delle guerre.
Sulle cause delle guerre
Perciò, se volessimo generalizzare, per fare chiarezza sulle cause delle guerre, si può affermare che le radici principali delle guerre sono gli interessi del complesso militare industriale e della politica di potenza (del potere come dominio)?
Quando Putin fa una scelta, che ovviamente è legata alla potenza, lo fa per se stesso e per il suo entourage o per la Russia? Molte delle categorie usate nelle relazioni internazionali sono desuete. Perché non esiste più lo Stato. Le dinamiche di mercato legate al complesso militare industriale sono delle concause delle guerre. In generale, non siamo più in presenza di guerre fatte dall’Italia, dalla Francia o dagli Usa. Ci sono molte più alleanze tra le élite internazionali della finanza di quanto non si creino appartenenze nazionali. Mentre prima le scelte di chi governava gli Stati erano legate ad una politica volta a migliorare la loro condizione, oggi non è così. La scelta di entrare in guerra con l’Ucraina sapendo che dall’altra parte c’è l’Occidente, anche se dal 2011 Putin ha finanziato moltissimo il complesso militare industriale russo, per modernizzarlo e poterlo immettere nel mercato globale, da cosa è motivata? La Russia, infatti, dal 2014 in poi ha speso in armamenti mille miliardi in meno dell’Europa. Mille e cinquecento miliardi in meno della Nato. Ogni anno spende, in media, 60 o 65 miliardi di dollari. La Nato 1200. È chiaro che è “un errore”, da questo punto di vista, fare la guerra. Quindi perché la fa? Per problemi interni: la guerra potrebbe permettere a Putin di mantenere il proprio potere, perché unisce. Come tante volte è stato fatto in passato. A queste dinamiche più tradizionali si aggiunge il fatto che la globalizzazione economica si è completata, in termini culturali, politici, finanziari. Perciò quello che uno decide in un Paese può derivare da interessi di altra natura, come quelli delle elites che vogliono mantenere la diseguaglianza che a loro giova, che è, tra l’altro, appunto, motivo per cui si fanno le guerre. Per rispondere alla tua domanda, insomma, dobbiamo abbandonare la mentalità da risiko che abbiamo ereditato dal passato, e anche smettere di considerare i Paesi come delle monadi. Ci sono una serie di interessi che vanno osservati: mantenimento del potere, del complesso militare industriale, della finanza globale, delle diverse elites che possono essere coinvolte, etc. Semplificare la lettura è sbagliato e pericoloso, anche se non bisogna mai dimenticare che ogni guerra è un modo per far diventare più ricco chi è già ricco. Ecco perché quando sento qualcuno che dice: “È colpa di Putin perché è come Hitler”, vado su tutte le furie. Non è così! Ridurre tutto alla pazzia o all’eccezionalità della situazione, è un modo per evitare di andare ad indagare tutte quelle dinamiche che ho appena ricordato e che possono portare a prendere delle scelte che sono veramente controproducenti anche per chi le compie. Diciamocelo chiaramente: la scelta di Putin è totalmente autolesionistica, tanto è vero che pochi, me compreso, avremmo pensato che avrebbe mai deciso di invadere l’Ucraina. Era evidente che sarebbe entrato in un “cul de sac”.
Un’altra sicurezza
Quali sono le alternative che si possono mettere in campo, soprattutto dal punto di vista della minaccia nucleare e sul piano di quella che possiamo chiamare “un’altra difesa possibile”? La difesa civile nonviolenta, per esempio, potrebbe essere in questo momento una proposta maggiormente convincente rispetto al passato? La necessità di cambiare il paradigma della difesa non appare ormai l’unica strada da intraprendere anche per chi non ci aveva mai pensato?
Penso che ci sia bisogno di cambiare il paradigma della sicurezza. Secondo noi (della Rete Pace e Disarmo, ndr) dobbiamo arrivare ad una sicurezza condivisa, di salvaguardia (dell’ambiente, del creato, delle popolazioni). Ossia, ti salvo perché ti guardo. Perché c’è una relazione. Oggi, se vogliamo costruire la pace, dobbiamo lavorare su tre livelli.
Il livello specifico: entrare nei conflitti, fare interposizione, avviare negoziati diretti e cercare di realizzare un cessate il fuoco. Questa è la precondizione. La gente si spara e si ammazza, e sta mettendo dei semi di odio che dureranno per generazioni. Basta vedere quello che succede nei Balcani. A questo livello possono intervenire i corpi civili di pace, l’interposizione nonviolenta, la cooperazione, un flusso economico virtuoso (perché se la gente sta meglio non vuole fare la guerra: se tutti stanno meglio la conflittualità diminuisce, come abbiamo sempre visto nella storia). Sappiamo che quest’ultimo aspetto è molto rilevante sia a livello internazionale sia a livello interno: se stai bene non fai la guerra. Oggi in Italia, in cui c’è un livello accumulato di sicurezza molto alto, la stiamo però perdendo sempre di più. Non tanto perché arrivano i migranti, ma perché le diseguaglianze aumentano. E cresceranno moltissimo i conflitti sociali e personali. Sino ad un secolo fa, se ci pensi, dovevi avere paura ad andare in giro per le strade. Oggi non è più così. Quando tutti viviamo meglio non si rischia di buttare alle ortiche quello che ti permette di stare bene.
C’è poi un secondo livello da tener presente: cambiare la modalità con cui si percepisce la sicurezza. Sono sicuro perché sono più armato, perché ho le armi nucleari, o perché spendo di più in armamenti? Anche questo è stato un cambiamento paradigmatico della guerra in Ucraina: fino all’invasione del 2022 i politici di vergognavano di sostenere pubblicamente che si stava aumentando la spesa militare. Era uno scandalo. Oggi viene affermato con una certa convinzione, usando l’argomento della garanzia della sicurezza. Cambiare il paradigma significa capire che le armi sono un pericolo, non una sicurezza. Cambiare l’idea sostenuta dal complesso militare industriale sull’occupazione: se leggi i giornali italiani degli ultimi cinque anni uno si può fare l’idea che l’industria militare italiana è qualcosa di eccezionale dal punto di vista economico. Se si prendono i numeri reali, invece, ti accorgi che è residuale da questo punto di vista. Come italiani, esportiamo più mutande e reggiseni, o mozzarelle e cibo, che armi. Anche considerando tutto l’indotto, e i precari del comparto delle armi, l’industria bellica produce lo 0,4 % di tutti gli occupati del nostro Paese. Se prendi i dati del Sipri (il più importante istituto mondiale sui conflitti nel mondo e sul mercato delle armi, ndr) e compari le prime industrie militari con le nove industrie manifatturiere del mondo, il rapporto tra le due è del 9% a vantaggio delle seconde. Siamo in presenza, quindi, di una retorica pervasiva piuttosto che di una realtà effettiva. Per arrivare a cambiare il paradigma della sicurezza, insomma, dobbiamo capire che sono più sicuro non se sono armato, ma se coopero di più, se ho meno probabilità di entrare in conflitto, o se esiste una gestione nonviolenta del conflitto, piuttosto che questo diventi violento. Anche su questo livello, la difesa civile nonviolenta potrebbe aiutare.
Il terzo livello, imprescindibile, è un elemento di quadro: tutto questo possiamo usarlo per fermare le guerre e per fare in modo che i conflitti non vengano gestiti militarmente, ma se non ci si impegna a ridurre la diseguaglianza e a ripensare davvero ad un nuovo sistema di sicurezza e cooperazione, in grado di portarci alla costituzione degli Stati Uniti del mondo, la federazione mondiale, non si riuscirà nell’intento di cambiare il paradigma. Anche se abbassi i casi di violenza conclamata, o i mezzi violenti per gestire il conflitto, non ce la farai mai a “tappare tutti i buchi”, perché se dovesse arrivare la valanga non saresti in grado di fermarla. Perciò vanno portate avanti l’Agenda 2030 (dell’Onu, ndr), la cooperazione internazionale, la riduzione delle diseguaglianze, la gestione collettiva del climate change (perché sennò aumenteranno i conflitti ambientali, basti pensare ai milioni di persone in displacement climatico).
Queste cose vanno fatte tutte, e allo stesso tempo. Anche chi si occupa di un tema specifico (come il conflitto umanitario o il disarmo internazionale, per esempio), deve sapere che non ha senso se svincolato da questi tre livelli che ho appena ricordato. Questo è cruciale. Ecco perché “Altromercato”, per esempio, fa parte della Rete Pace e Disarmo: costruire relazioni economiche diverse con i produttori del sud del mondo è un modo di fare la pace. Come se ne sono resi conto loro, anche chi si occupa di pace in modo più canonico deve capire che questo è un pezzettino dello stesso percorso. In sintesi: per affermare una sicurezza condivisa dobbiamo avere un approccio onnicomprensivo, e anche il movimento pacifista internazionale deve fare questo salto fondamentale. Altrimenti gli sforzi che facciamo, che vanno bene dal punto di vista etico-morale e raggiungono anche dei piccoli risultati politici, non risolveranno la questione nel suo complesso.
Un’idea di sicurezza basata sulla condivisione, sul benessere, sulla cooperazione…
Esattamente, questo è il punto. La mia formazione cristiana mi fa pensare a un passo del Vangelo, dove si dice: “Quando un uomo forte e ben armato, con l’armatura in casa, si sente sicuro, poi arriva uno più forte di lui che gli strappa l’armatura nella quale confidava, e ne fa spoglie”. Questo succede. Se è questa l’idea di sicurezza, non ce la farai mai. C’è un tema ibrido di sicurezza, sia legato al terrorismo, sia legato agli hackeraggi, allo spionaggio, alla corruzione. Se hackero il sistema delle ambulanze, come successo qualche tempo fa a Londra, faccio dei morti. Anche se uno non se ne accorge. Come fai ad essere sicuro al 100% rispetto a questo genere di cose? Non ce la fai. Chiaramente non si potrà mai avere la certezza assoluta che non avvengano. Ma tanto ciò non avverrebbe in nessun altro modo. Quando ci dicono, in modo derisorio, che noi vogliamo affrontare i conflitti con le mani alzate dipinte di bianco, io rispondo: “Perché quando tu invece intervieni militarmente non muore nessuno?!”. Quanti morti ci sono tra i militari e tra i civili, nelle azioni di difesa e di sicurezza armata? Tantissimi! Quante e quali conseguenze hai? Adesso nessuno parla più di Afghanistan, dopo 20 anni. Facciamo una valutazione sulla sicurezza che abbiamo raggiunto in quel Paese: quanto abbiamo speso? Quanti uomini abbiamo mandato sul campo? Quanto è importante l’impatto tra i morti, i feriti e i traumatizzati? E cosa abbiamo ottenuto? Il modello della “hard security” cosa ha prodotto?!? Niente. Né nel contesto afghano, né in quello internazionale. Perché se siamo più o meno sicuri rispetto al terrorismo dipende da altro. Intendiamoci, anche la condivisione è rischiosa e non è garantita da nulla (basta vedere cosa accade nelle nostre famiglie, dove ogni tanto qualcuno s’arrabbia), ma tu devi avere delle strutture che le gestiscono. Non devi pregare, e basta, affinché ci sia la concordia. Devi avere le istituzioni e la democrazia per farlo, come abbiamo visto negli ambiti intrastatuali e che dobbiamo cercare di fare a livello globale. Anche se il modello che stiamo proponendo non può dare delle certezze assolute, per lo meno non abbiamo avuto delle controprove che non funziona. Ma sicuramente il modello della “hard security” non funziona a livello pratico, anche se viene idealizzato a livello teorico.
Se organizzata in modo complesso e finanziata in maniera sistematica, la difesa civile e popolare nonviolenta potrebbe essere un’istituzione che progressivamente va a sostituire l’esercito?
Sì, soprattutto se finanziata e preparata. Dopo vent’anni che aumenti le spese militari, aumenti le armi in circolazione, quando scoppia una guerra, come in questo caso, non si può dire ai pacifisti: “Adesso datemi una soluzione!”. No, non te la diamo. Perché sappiamo benissimo che sono situazioni che non si risolvono con la bacchetta magica o con una ricetta banalizzante. Sappiamo, invece, che c’è un lavoro da fare. Anche gli strumenti su cui si può puntare per affrontare il problema, devono essere preparati. Come in tutte le cose della vita. È come se ad un certo punto qualcuno ti dicesse: “Domani costruiscimi una casa!”. Chiaramente gli si risponderebbe: “Calma, dobbiamo andare a trovare il muratore, l’architetto, etc”. Tutti prenderebbero per matto chi ti chiede, dall’oggi al domani e in questo modo, di fare una cosa che richiede pianificazione, preparazione e anche competenza. La banalizzazione che avviene su questo terreno è talmente spinta che siamo costretti a rispondere a domande di questo tipo. Noi siamo mesi che andiamo ripetendo che non abbiamo la soluzione in tasca, ma dei percorsi, delle possibilità da sviluppare. Sappiamo che, innanzitutto, bisogna fermare le armi. Nessuno può dire tra 2, 5 o 10 anni cosa ci sarà in Ucraina. Quello che sappiamo, ed è evidente e sotto gli occhi di tutti, è che il meccanismo che stanno usando oggi peggiora la situazione. La difesa civile e popolare nonviolenta permetterebbe di avere degli strumenti per potere intervenire non solo dal punto di vista teorico, ma anche da quello pratico. Se oggi avessimo i corpi civili di pace, e un istituto sulla pace e sul disarmo che avrebbe già pensato dei percorsi da sviluppare, già impostato il lavoro e che avrebbe già trovato delle persone per realizzarlo, noi avremmo già potuto testare degli interventi non armati e nonviolenti, che invece oggi possiamo solo richiamare idealmente. Perché non ce li abbiamo. La preparazione degli strumenti è fondamentale. Se testate e preparate come si deve, si capirà qual è l’unica vera carta che abbiamo in mano, e che, però, è potentissima: la convenienza. Quando la popolazione capisce che se sviluppiamo un certo percorso staremo meglio tutti, e ciascuno potrà rendersene conto in prima persona, allora si genererà una pressione per farlo finalmente iniziare. La retorica può fare quel che vuole, ma nel medio e nel lungo periodo le dinamiche che funzionano sono quelle che migliorano la situazione. Questo lo abbiamo visto dappertutto, sempre, in tutta la Storia. Far capire che questo è possibile, permetterebbe di spostarci su questo terreno. Ecco perché, secondo me, in questi mesi c’è stato in Italia un attacco mistificatorio e disonesto ai percorsi pacifisti. Ci hanno definiti “putiniani”. Chi dalla situazione di potenza trae il proprio potere, non può permettersi che nell’opinione pubblica ci sia un’altra mentalità. Un’altra difesa possibile. Se così fosse e si sperimentasse il modello alternativo, si vedrebbe chiaramente quale dei due è realmente efficace. È per questo che non viene nemmeno pensata, anzi, viene osteggiata e cancellata. Ecco perché si dà spazio a chi è pro-Putin, piuttosto che a chi ti propone un altra forma di azione e di intervento. Purtroppo abbiamo visto questa dinamica anche nel parlamento europeo in questi ultimi anni. Chi viene fatto fuori? Chi propone i nostri percorsi. È molto più pericoloso chi, come noi, ti dice: “In costituzione c’è l’esercito? Va bene, ma intanto tu dammi un’altra struttura. Dovresti farlo, perché è un mio diritto esercitare il dovere costituzionale di difesa della patria in maniera non armata. Ma come faccio se non si creano alternative?”. Una vera alternativa è la cosa più pericolosa. Come dice giustamente Nico Piro il pensiero unico bellicista non ti permette neanche solo di pensare che ci siano altre possibilità di aiuto, se non quella di inviare le armi, aumentare la spesa militare e bombardare. Quando non se ne vuole neanche parlare, vuol dire che potrebbe mettere radicalmente in discussione l’interesse bellicista che si sta difendendo.