Per il coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo “la minaccia nucleare è concreta, serve una conferenza di pace”
“Si può discutere se sia efficace o meno inviare armi all’Ucraina per sostenere la resistenza, ma per noi resta chiaro un punto: non è vera la tesi dei governi occidentali secondo cui dare più armamenti a Kiev significa accelerare la fine di questo conflitto. Al contrario, come i fatti dimostrano, lo sta prolungando, con costi inimmaginabili per i civili e profitti enormi per le aziende produttrici di armi”. Ne è convinto Francesco Vignarca, il coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo. Il commento all’agenzia Dire giunge in coincidenza di varie date importanti: tra un mese ricorrerà il primo anniversario dello scoppio del conflitto in Ucraina, una data anticipata da nuovi impegni assunti nel vertice del gruppo di contatto per l’Ucraina a guida Usa che si è svolto venerdì scorso alla base tedesca di Ramstein.
In particolare, il Pentagono ha annunciato oltre 2,3 miliardi di dollari in nuovi armamenti, mentre Berlino ha promesso che ne stanzierà un miliardo. Il governo ucraino ha però fatto appello ai carriarmati, a cui ha risposto la Polonia promettendo i Leopard 2, di fabbricazione tedesca. Una mossa che non ha incontrato l’entusiasmo della Germania che, tuttavia, ha garantito che “non si opporrà” alle scelte di Varsavia. Il 22 gennaio, ricorda Vignarca, ricorreva anche il secondo anniversario dell’entrata in vigore del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (Tpnw), la prima norma internazionale che dichiara illegali le armi atomiche, a cui però l’Italia non ha aderito assieme a Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti, nonché tutti gli altri membri Nato ad eccezione dei Paesi Bassi. Il rischio dell’uso di armi nucleari “è concreto” avverte Vignarca, “e probabilmente sarà al centro della denuncia degli scienziati del Doumsday clock”, ‘l’orologio dell’apocalisse’ che oggi alle 16 ora italiana, come ogni anno, riveleranno quanti minuti mancano simbolicamente alla fine dell’umanità.
Vignarca rilancia quindi la proposta invocata dalla Rete e dagli oltre 600 organismi che hanno aderito alla piattaforma Europe for peace: “serve una conferenza di pace. Non abbiamo in tasca la soluzione, certo, ma ricostruire sulle macerie non ci sembra un’opzione sostenibile”. La guerra in Ucraina d’altronde “non è la sola: non a caso a fine gennaio Papa Francesco andrà in Repubbloca democratica del Congo e Sud Sudan”, altri paesi colpito da conflitti “terribili”, ma ci sono anche “Siria, Yemen Etiopia..”. Riportare pace nel mondo è un compito complesso che per l’esperto necessita “di impegni su più fronti, come quello umanitario: le associazioni di Europe for peace, infatti, non fanno solo chiacchiere, ma ogni giorno lavorano per portare aiuti alla popolazione in Ucraina, fino a Kherson”.
Perché per il coordinatore di Rete pace e disarmo “è vero che assistiamo a tanta retorica sulla pace, ma questa arriva soprattutto da quei Paesi che si affrettano a riarmarsi e che, di fatto, fanno gli interessi dell’industria bellica”. Una corsa che, informa Vignarca citando una previsione della Foundation for Defense of Democracies’ Center on Military and Political Power, “potrebbe valere 23 miliardi di dollari di profitto ai produttori di armi americani”. Un export vantaggioso che perà “resta in ombra” nel discorso mediatico e politico sulla guerra, ma che risulterebbe evidente “anche osservando le sclete degli ultimi governi dell’Italia: con l’osservatorio Milex- informa l’esperto- abbiamo calcolato un aumento di 800 milioni nel comparto militare, passato da 25,7 miliardi del 2022 a 26,5 previsti per il 2023. Di questi-riferisce- 8,2 miliardi saranno spesi per nuovi armamenti. Negli ultimi cinque anni quindi si è quasi raddoppiata la quota per i sistemi d’arma e questo avvantaggia ovviamente l’industria. Denaro pubblico che invece- conclude- si potrebbe investire nella scuola o nella sanità”.
A fine novembre Milex ha calcolato che il conflitto in Ucraina sta costando all’Italia oltre 450 milioni di euro, secondo le valutazioni derivanti dal valore dichiarato delle cessioni e dal contributo italiano all’European Peace Facility (lo strumento europeo con cui tali invii di armi avranno copertura finanziaria), a cui si potrebbero aggiungere ulteriori costi di rifornimento magazzini della Difesa.