Un mio intervento pubblicato sulla Rivista di Emergency, per il numero di settembre 2022
Come si può costruire la pace attraverso tre parole chiave: disarmare, soccorrere e negoziare.
Vediamo tutti quotidianamente le immagini che arrivano dall’Ucraina. A partire da questa consapevolezza possiamo ragionare sugli strumenti dell’azione nonviolenta e dell’azione di disarmo.
Il disarmo è un percorso strutturale della nonviolenza, come ricerca della società tutta e di tutte le società. È chiaro che l’invasione criminale dell’Ucraina da parte della Federazione Russa ha messo tutti di fronte
a gravi problemi, facendo conoscere la guerra anche a chi non l’aveva mai vista prima d’ora. Essendo Kiev molto vicina a noi, ci coinvolge un rischio di escalation. Ma c’è anche la minaccia della cobelligeranza, visto il consistente invio di armi occidentali, anche italiane.
Quella in Ucraina, però, non è l’unica guerra ad attanagliare il mondo. Ci si dimentica troppo facilmente dei conflitti più lontani. Pochi mesi fa tutti parlavano solo di Afghanistan. Oggi di Afghanistan parlano solo coloro che sono attivi nel Paese e sanno che la guerra ha lasciato una situazione critica, che permane ancora oggi. Le nostre campagne disarmiste e nonviolente hanno registrato dei passi indietro di vent’anni per le reazioni che si sono avute in parte dell’opinione pubblica che ha accomunato i pacifisti non violenti a supporter di Putin. Eppure, da tempo sottolineavamo come non si dovessero fare affari con Putin e la sua autocrazia perché noi, in realtà, non siamo equidistanti siamo neutrali rispetto alle potenze militari. Perché crediamo e siamo convinti che la soluzione militare non sia una soluzione di pace, che la pace si possa costruire solo con la pace e che più che pacifisti dobbiamo essere coloro che odiano la guerra, perché quando c’è la guerra non puoi fare la pace. Quindi la prima cosa da fare è fermare la guerra, e poi costruire la pace. Ma né fermare la guerra, né costruire la pace lo puoi fare con le armi.
Abbiamo scelto sempre di stare dalla parte dei civili, delle vittime. Nessuno, fino a pochi mesi fa, si occupava dell’uso di armi esplosive in contesti popolati. Noi siamo parte di una campagna che ne chiede una mozione politica a tutti gli effetti. Questo è fondamentale in un conflitto, come quello ucraino, dove le città sono i principali target degli attacchi. Da anni chiediamo il disarmo nucleare e sosteniamo il Trattato internazionale di proibizione delle armi nucleari, che le grandi potenze e la stessa Italia non vogliono prendere in considerazione. Un’escalation nucleare causerebbe infatti centinaia di milioni di morti nelle prime ore dall’esplosione e un rischio vita per miliardi di persone nelle settimane successive.
La pace, evidentemente, non si può creare aumentando le spese militari, che pur essendo cresciute del 90% dal 2001 al 2020 non hanno reso il mondo più sicuro. L’abbiamo visto in Afghanistan, in Libia, in Iraq: mandare flussi di armi, aumenta solo l’intensità del conflitto, con più morti tra i civili. E parte della responsabilità è in mano all’Europa. Tanto è vero che le principali aziende di produzione di armamenti, europee e quindi anche italiane, hanno avuto un balzo di più del 30% in Borsa. La Germania ha annunciato di voler raggiungere i 100 miliardi di Euro annui in investimenti militari; la Francia lo stesso; Paesi come la Svezia e la Finlandia vogliono proseguire sulla stessa strada. Anche in Italia un voto di indirizzo, per ora non vincolante, porterebbe il governo a spendere fino al 2% del PIL.
Dal 2014 in poi, anno dell’invasione del Donbass e della Crimea da parte di Putin, la spesa militare è costata all’Italia ben 190 miliardi di Euro. Nello stesso arco di tempo gli investimenti nei corpi civili di pace è stato di appena 9 milioni di Euro. Manca una logistica e una struttura degna degli obiettivi che ci prefiggiamo. In questo senso, il modo migliore per far finire una guerra e indirizzare meglio gli investimenti è non alimentarne la preparazione armata. Il conflitto esiste, è parte dell’umanità, anche per chi è nonviolento. Ma il suo pensiero vuole che con le giuste strutture sociali, politiche, collettive, il conflitto possa diventare un gioco di compromesso.
Il disarmo prepara il terreno per tutto questo, perché toglie le risorse alla guerra e offre strumenti alla pace. E noi chiediamo proprio la riduzione della spesa militare perché sappiamo che un’altra strada può davvero funzionare: con solo il 10% della spesa militare mondiale è stato calcolato che, dal 2015 al 2030, si sarebbero potuti raggiungere molti degli obiettivi di sviluppo sostenibili come eliminare la fame, l’accesso all’acqua, alla sanità e all’istruzione universali. Questi risultati inciderebbero in modo consistente sulle cause di molti conflitti, spesso causati da dinamiche sociali, economiche, politiche e che, aumentando il benessere generale della popolazione, verrebbero sicuramente ridimensionate.
Una resistenza nonviolenta è molto più efficace di quella violenta. Una resistenza che permette di intervenire a fianco delle vittime, trasformando gli ecosistemi sociali, non lasciando che le difficoltà diventino endemiche. Chiediamo da sempre un percorso di coinvolgimento delle società civili locali, l’unico modo per costruire la pace. Si deve abbandonare il motto latino “si vis pacem, para bellum” in favore di tre principi cardine del pensiero nonviolento: soccorrere, porsi nel mezzo, aiutare i profughi, incentivare i corridoi umanitari; disarmare, perché è solo disarmando, solo mettendo giù le armi che si potrà davvero cercare di costruire oltre la belligeranza; ultimo ma non per importanza, negoziare, che non vuol dire cedere qualcosa, bensì comprendere come non è con l’orgoglio, con una posizione manichea granitica che si possono creare dei percorsi di pace, ma che è un cammino che è invece una convivialità delle differenze e che si può raggiungere, dal nostro punto di vista, solo con strumenti e percorsi nonviolenti.