Versione estesa dell’articolo uscito sul quotidiano il Manifesto
Dopo due anni di riunioni a distanza a cauda della pandemia, li Stati che fanno parte del Trattato sui trasferimenti di armi ATT hanno finalmente potuto riunirsi di nuovo in presenza la scorsa settimana, a Ginevra. Una Conferenza che è quindi stata occasione per riportare anche nel dibattito diplomatico internazionale il tema dei circuiti internazionali delle armi. Un aspetto che risulta oggi di grande rilevanza nell’ottica del conflitto in Ucraina, ma che l è pure per tutte le guerre dimenticate nelle quali i flussi di armi (originati in gran parte delle grandi potenze, soprattutto Occidentali) creano instabilità e violenza armata.
Con il Trattato ATT (entrato in vigore nel 2014 e attualmente ratificato da 111 Paesi) per la prima volta diritti umani e preoccupazioni di natura umanitaria sono stati integrati in un accordo globale riferito ad aspetti militari, introducendo l’elemento della responsabilità (prima assente) nel commercio globale di armi. Ad oggi non ne fanno parte USA e Russia, cioè i principali esportatori di armi al mondo, mentre per la prima volta la Cina ha partecipato a lavori in presenza, con un coinvolgimento positivo. Non stupisce dunque che uno degli aspetti principali su cui si è discusso a Ginevra sia stato quello della “universalizzazione” del Trattato; aspetto in particolare sottolineato dagli Stati (e dalla società civile) africani – anche nell’aspetto di assistenza ed implementazione dei meccanismi che è difficile per Paesi più piccoli e fragili – cioè da coloro che sono maggiormente colpiti dallo sconsiderato commercio di armi. Il Trattato ATT è stato adottato per contribuire alla pace, alla sicurezza e alla stabilità internazionale e regionale: se attuato efficacemente può prevenire la violenza armata sia in situazioni di guerra sia di non confitto, e con le sue disposizioni specifiche relative alla prevenzione della cosiddetta “diversione” (cioè lo sviamento rispetto alle vendite autorizzate) fornisce un quadro di riferimento per fermare il flusso illecito e irresponsabile di armi nelle regioni del mondo in cui impattano sulla popolazione provocando sofferenze indicibili.
Certamente il rischio di Conferenze internazionali di questo tipo è quello di trasformarsi in un “rituale” formale (e un po’ “scarica coscienza”) senza entrare nel merito dei problemi: ma proprio per questo è cruciale il ruolo della società civile internazionale, che molti vorrebbero invece vedere ridotto. La campagna internazionale Control Arms (di cui fa parte fin dalla fondazione anche Rete Italiana Pace e Disarmo) ha continuato dunque a focalizzare la propria azione su progressi pratici, perché è forte la convinzione che l’applicazione di regole sui trasferimenti di armi possa ridurre la sofferenza umana. Al contrario lasciare che i flussi di armamenti vengano guidati solo dalle convenienze di corto respiro delle politiche estere e dal business aumenta a dismisura il rischio di conflitti. E di morti tra i civili.
Per tali motivi è ormai giunta l’ora di passare dalle ipotesi ideali a passi concreti: “Occorre utilizzare gli appuntamenti delle Conferenze sull’ATT per analizzare i progressi della sua attuazione, non sul mero processo – ha sottolineato Control Arms in uno dei suoi interventi in plenaria – Otto anni di processo sono sufficienti. È ora di discutere in cosa il Trattato sta funzionando e quali siano le sfide da affrontare. Tutti dobbiamo prendere in considerazione il costo umano dei trasferimenti di armi per le comunità colpite da conflitti e violenza armata”.
Negli ultimi anni gli Stati hanno invece privilegiato pianificazione e costruzione di strutture, trascurando di fornire informazioni dirette e pratiche agli Stati – soprattutto i nuovi – su come attuare gli obblighi del Trattato. Si è in pratica privilegiato un approccio astratto senza discutere adeguatamente l’applicazione dell’ATT nel mondo reale: casi concreti di potenziali triangolazioni, analisi nel merito delle fasi di valutazione di un’esportazione e sulle motivazioni alla base dell’approvazione o del rifiuto della stessa. In un certo senso la trasparenza sull’export di armi fa paura, con il paradosso che nel recente passato ad esempio alcuni Paesi hanno concordato con i pericoli di un approccio permissivo sui flussi di armi verso la guerra in Yemen evidenziati dalla società civile – magari negando le vendite – ma nessuno è stato disposto a condividere i dettagli su come venga effettuata la valutazione del rischio di violazione dei diritti umani e di impatto negativo delle armi. Che invece è centrale nelle richieste dell’ATT.
E dunque continua a calare la possibilità di accedere ai dati: al momento il tasso complessivo di conformità dei rapporti annuali previsti dall’ATT è il più basso di sempre, ed è stato presentato solo il 57% dei rapporti annuali del 2021, rispetto all’84% del 2015. E di questi solo il 37% degli Stati Parte tenuti a presentare un rapporto ne ha presentato uno disponibile al pubblico. Queste tendenze sono preoccupanti perché minacciano di compromettere in modo significativo gli scopi e gli obiettivi di trasparenza del Trattato.
Nessun dettaglio sulle procedure è stato condiviso nemmeno nel caso dell’Ucraina, che è stato al centro di buona parte delle discussioni più delicate delle giornate ginevrine. Nemmeno i Paesi del blocco Nato, che hanno però sottolineato la necessità di uno stop ai rifornimenti militari per la Russia (non banale in quanto la maggioranza degli Stati del mondo non si pone su quella stessa linea politica, nonostante quello che appare nei nostri media), hanno voluto realmente dettagliare i motivi per cui il loro invio di armi all’Ucraina fosse invece in accordo con i criteri del Trattato. La questione è ovviamente complessa, ma sarebbe stato opportuno entrare nel merito pur in questo contesto, se si crede davvero ad una possibile e reale efficacia non solo retorica del’ATT.
Una conversazione seria e franca sui trasferimenti di armi a Stati in conflitto e ad aree colpite da violenza armata potrebbe illuminare le modalità di applicazione dei criteri dell’ATT e fornire una visione, ormai necessaria, sul processo di valutazione del rischio.
Occorre rafforzare anche con questi passi l’attuazione dell’ATT, dimostrarne la rilevanza nel mondo reale. Dallo Yemen all’Ucraina, dalla Siria al Myanmar, il Trattato e la sua valutazione del rischio hanno un ruolo da svolgere su situazioni che riguardano la vita quotidiana milioni di persone in tutto il mondo, per garantire che non si perda di vista lo scopo del Trattato: ridurre la sofferenza umana.