Da più di due mesi è in corso la guerra in Ucraina. I paesi dell’Unione Europea e della Nato partecipano, oltre che con sanzioni più o meno efficaci e condivise, con un ingente invio di armi e con promesse di aumento delle già altissime spese militari. In Italia, secondo i sondaggi la maggioranza della popolazione è contraria all’invio di armi all’Ucraina, e una maggioranza ancora più ampia è contraria all’aumento delle spese militari. Eppure il Parlamento sembra parlare solo quella lingua. È l’unico modo per intervenire? Ed è davvero efficace?
Caterina Orsenigo ha intervistato su questi temi per “gli Stati Generali” Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo.
La narrazione che viene in questo periodo dai media e dal dibatto pubblico vuole che in guerra ci si debba schierare, da una parte o dall’altra, e che ci siano un aggressore e una vittima ben riconoscibili. In realtà la situazione è sempre più complessa.
Credo che non sia nemmeno così facile da individuare le due parti. Si tende ad appiattire tutto su un’unità politica ma non è così. La Russia non è solo il suo governo, ci sono le persone. Come ci sentiremmo noi italiani a essere appiattiti sotto ogni cosa detta da Draghi o Di Maio? Le sfaccettature nella società italiana sono enormi, come lo sono nella società russa. Non è come nel calcio che si tifa la Nazionale punto e basta.
Molti oggi direbbero che questo è un modo per non schierarsi. E che non ci si può non schierare.
Ben prima del conflitto abbiamo elaborato quest’idea di “neutralità attiva”. Non vuol dire non schierarsi, è una neutralità rispetto a questa o quella alleanza politico-militare. Anche la Croce Rossa può intervenire in virtù del fatto che è “neutrale” in questo senso. Proprio perché pensiamo che la pace sia molto più che assenza di guerra o fine di un conflitto in cui una parte vince e l’altra perde, noi non ci schieriamo con una parte militare e politica, ma ci schieriamo con le persone, con le vittime che in questo momento sono ovviamente soprattutto i civili ucraini, ma anche una bella fetta di società civile russa è vittima dell’autocrazia di Putin. Non possiamo considerare chi si arruola per combattere volontariamente alla stregua dei nostri amici dell’associazione degli obiettori russi che volantino per convincere la gente a non arruolarsi.
Cosa vuol dire allora la pace?
Una pace solo politica, come abbiamo visto altre volte nella Storia, rischia di diventare premessa per ulteriori conflitti. Per questo pensiamo che ci si debba schierare nel senso che dicevo poco fa e fare in modo che ci sia una crescita continua di diritti per la maggior parte delle persone: è questo che ci interessa, non che vinca uno o l’altro, ma che la popolazione migliori la sua condizione e acceda a dei diritti più ampi.
A questo punto a che tipo di pace si può aspirare?
Come diciamo sempre, prima di costruire una pace bisogna fermare la guerra. Mentre gli scontri sono in corso non è possibile pensare a una pace.
Ma finché non si concederà qualcosa a Putin, non si fermerà.
No, questo serve come tregua. Molti scambiano una tregua con una Pace, ma non è così. Se Putin deciderà di fermarsi perché gli si darà il Donbass non sarà tutto risolto, così come non era tutto risolto dopo il 2014. E già allora le nostre organizzazioni continuavano a sottolineare la problematicità di Putin, mentre quelli che oggi si ergono a paladini della giustizia per tutto questo tempo non si sono posti il problema, né con lui né tutt’ora con gente similare, per esempio Erdogan.
Quindi per prima cosa serve una tregua…
Sì, ora gli sforzi devono essere mirati a fermare gli scontri. Sia perché se no non si può cominciare a preparare la pace, sia perché più si va avanti più si continuano a seminare sempre più odio e problematicità per il futuro. Ma devono essere sforzi multilaterali. Non ci si può lamentare che “a Putin non va bene niente”: se si fa una tregua deve essere d’accordo anche lui. Bisogna continuare a proporgli accordi, anche se per ora non accetta, ma è normale: all’inizio di qualsiasi conflitto nessuno vuole cedere nulla, poi però da qualche parte bisogna partire. Se invece davvero pensano che sia impossibile ottenere qualsiasi tipo di accordo con Putin, allora non devono mandare solo le armi in Ucraina ma intervenire militarmene e fare di tutto per “toglierlo di mezzo” come in parte suggerisce Biden. Stare a metà non è corretto da un punto di vista logico.
Come bisognerebbe agire invece?
Secondo noi bisogna fare di tutto per aprire possibilità di negoziato, aprendole anche con la popolazione civile. E questo ovviamente non è facile perché sono sotto un autoritarismo, non hanno accesso alle informazioni. Si è visto che dall’inizio della guerra paradossalmente sale il sostegno a Putin: in parte perché se non sai che sta accadendo qualcosa non ti informi su quella cosa e in parte perché il martellamento informativo può avere un’influenza molto forte.
Da quando siamo andati a Leopoli all’inizio del conflitto stiamo lavorando per creare un filo verde di controinformazione interna. Questo lavoro è fondamentale perché un vero confronto deve coinvolgere anche le società civili. Il rischio altrimenti è di trovare un accordo ora che però non eliminerà i problemi che sono alla base di questa autocrazia. E quindi di non arrivare mai a una vera pace.
Non ci si dovrebbe limitare a mettere una pezza, ma cercare soluzioni più profonde…
È complicato, non sono soluzioni semplici. Ma è importante, e lo si è visto storicamente, che il discorso sia il più multilaterale possibile, che non ci sia un solo mediatore. Il confronto non può essere solo fra Ucraina e Russia, deve essere molto più allargato. Quello che sta succedendo è un sintomo di una difficoltà globale, di uno spazio di sicurezza condivisa da riscrivere. E fare finta che sia solo una questione fra Ucraina e Russia è sbagliato. Ci sono dentro interessi, dinamiche, prospettive degli Stati Uniti, dell’Europa, dalla Cina, dell’India, di cosa sono le Nazioni Unite… O si mette tutti attorno a un tavolo per creare una fase nuova, oppure ognuno tira acqua al proprio mulino e ora ne fanno la spesa gli ucraini perché in questo caso è lì che è scoppiato il “bubbone” dello scontro, ma ciò avviene perché la situazione è globalmente instabile.
Poi certo, noi stiamo intervenendo per chiedere un cessate il fuoco e aiuti umanitari, questo già lo stiamo chiedendo.
Chi sono i vostri interlocutori?
Noi siamo collegati con tutte le realtà pacifiste internazionali, però siamo in Italia e il nostro ruolo è lavorare con interlocutori italiani o al massimo europei. Chiediamo un cambio di rotta al nostro governo affinché porti sul tavolo internazionale delle altre proposte, delle altre prospettive e non la risposta pavloviana: “mandiamo più armi, aumentiamo le spese militari, allarghiamo la Nato”. È una risposta molto chiusa perché se vogliamo arrivare a una soluzione vera dobbiamo capire che il tavolo è molto più allargato di quanto non si voglia far credere.
Ora sono passati due mesi e fare l’esegesi del perché il conflitto è arrivato, se è solo colpa di Putin o anche della Nato al momento è inutile, sono considerazioni che faranno gli storici. Ormai il conflitto c’è e non si può far finta che non ci siano dinamiche e interessi sullo sfondo, delle questioni di potere internazionale che vanno ben oltre la situazione in Ucraina.
Perché Zelensky non sembra voler favorire una tregua?
Perché sa che l’unico ruolo che può avere e che può trasformarlo in un eroe è quello di fare il presidente coraggioso che non si piega davanti a niente. Se poi questo sia veramente negli interessi della propria popolazione non lo so. È vero, e lo diciamo sempre anche noi, che se mancano i diritti, il fatto che non ti sparino addosso non vuol dire che ci sia la pace. Però il primo diritto è alla vita. E non sarà facile parlare di diritti e di democrazia su un cumulo di macerie, con una popolazione distrutta o un paese completamente devastato in termini economici e ambientali.
Invece nella Storia abbiamo visto molti casi che i tentativi di resistenza o di rivolgimenti politici non violenti sono quelli più efficaci, che durano più a lungo.
Per esempio?
C’è una ricerca di Harvard che prende in considerazione tutti i rivolgimenti politici dal 1900 al 2016 e mostra che quando una rivoluzione o un cambiamento politico è stato fatto con strumenti non violenti ha avuto più successo ed è durato molto di più. Questo vuol dire che ci sono vari modi di resistere.
Ecco di questo non si parla mai davvero: esistono delle alternative.
Contrariamente a quello che dicono i media main stream noi non diciamo “Arrendiamoci a Putin e facciamogli fare quello che vuole”: al contrario ci domandiamo “Qual è il modo più efficace per resistere? Qual è il modo migliore per preservare la vita delle persone e poi far evolvere la loro situazione anche dal punto di vista dei diritti?”. Perché quando c’è una guerra non si può costruire la pace e non si può migliorare la situazione delle persone. Pensiamo alla Siria. Si combatte da più di dieci anni. Che tipo di diritti, che tipo di possibilità ci sono lì per le persone? È il modo giusto per far cadere un regime come quello di Assad, che sicuramente è liberticida? Non credo, perché una situazione del genere rafforza solo gli estremi e la dittatura. Anche in questo caso i gruppi ucraini con cui siamo in contatto ce l’hanno detto chiaramente che inviare armi avrebbe solo creato un’escalation che sta consentendo solo di ridurre i diritti interni degli ucraini perché in un contesto di guerra vale tutto. Questi sono percorsi sbagliati.
Quali sono gli effetti del flusso di armi in questo conflitto ma anche più in generale?
La letteratura dimostra che il flusso di armi in un conflitto ha due effetti: uno, escalation verticale, cioè rende più duro e impattante il conflitto; due, escalation orizzontale, cioè coinvolge nel conflitto sempre più attori, soprattutto attori statuali geograficamente vicini. Ed è quello che si rischia che stia succedendo lì. Allora la domanda è: perché dobbiamo mandare armi se la Storia ci ha dimostrato che non è il modo per risolvere? Questo non vuol dire che allora si deve lasciar fare a Putin quello che vuole, ma bisogna trovare delle altre modalità.
E qual è la risposta a questo “perché”?
Un motivo è sicuramente che in questo momento le industrie di armamenti stanno brindando un sacco.
Possibile che abbiano così tanta influenza?
Un po’ riescono a influenzare, un po’ hanno già influenzato. Su certi temi non c’è neanche bisogno di spingere o corrompere perché quell’idea è già stata instillata. Negli ultimi decenni ha preso piede l’idea di sicurezza come sicurezza per forza militare e armata; l’idea di soluzione ai conflitti come una soluzione per forza militare. Anche se non ha mai funzionato: l’Afghanistan ne è una prova, si è fatto un intervento militare di vent’anni e non è servito a nulla, anzi – ma ce ne siamo già dimenticati. Si è instillata in tutti noi una reazione pavloviana: c’è un conflitto, lo risolviamo con le armi e la spesa militare ci rende più sicuri.
Quindi si aumenta la spesa militare.
In realtà dati di qualche giorno fa sul nostro sito mostrano che siamo a quasi il 90% di spesa militare in più in vent’anni, la Nato ha speso oltre 17 volte la Russia, l’Europa ha speso 3,5 volte la Russia… eppure l’unica risposta che si riesce a dare è “c’è un conflitto, spendiamo di più”. Non ha nessun senso logico. Perché se hai speso 17 volte di più, o stai dicendo non sei stato efficace e le tue forze armate fanno schifo, oppure è solo una reazione istintiva che ti fa dire “Dobbiamo fare qualcosa”, e quel qualcosa è la cosa più semplice e accettabile e sloganistica che ti venga in mente. Noi non abbiamo una soluzione in tasca, ma quello che sappiamo per certo è che finora il flusso di armi non ha portato da nessuna parte. Se non avessimo dato armi la Russia avrebbe conquistato di più? Non lo sappiamo. Ma di certo intanto la distruzione continua. La guerra non è come un film di Hollywood, in cui dai le armi al buono che spara a tutti e becca tutti, mentre lui al massimo viene colpito di striscio ma non lo prendono mai. Nella realtà non va così e il flusso di armi porta a morte e distruzione. Quando c’è la guerra, c’è la morte e c’è la distruzione. Non è un film e non puoi pensare di risolverla in maniera pulita. È questo, anche, il problema della nostra politica: che vuole delle risposte sloganistiche e che siano asettiche.
Pesa molto la responsabilità dei media, in questo senso?
In parte c’è sicuramente una responsabilità mediatica, c’è chi sta dietro a certi interessi, ma c’è proprio un’incapacità di accogliere la complessità. non basta mandare le armi e fare sanzioni ed è tutto risolto. E non si può semplificare la situazione dicendo “Ma Putin è come un bullo che ti picchia e tu non puoi non reagire”. Ma stiamo scherzando? La guerra non è così, la guerra implica persone, vite, e non le stai rispettando così. Ma è molto più facile trovare soluzioni scappatoia. La complessità l’abbiamo affrontata anche per evitare di essere noi sloganistici e dire semplicemente “vogliamo la pace”. Culturalmente negli ultimi anni c’è stata una regressione di tutti i pezzi della società – società civile, giornalismo e soprattutto politica – che non è più in grado di fare ragionamenti complessi. È la stessa cosa che è avvenuta col Covid: cercare di dare soluzioni semplici nel tentativo inutile di risolvere la situazione subito. Invece non è una Crociata. Noi non abbiamo soluzioni, abbiamo piste di lavoro.
Quindi si sceglie lo strumento militare per semplicità.
Si sceglie lo strumento militare perché è l’unico che si è costruito. Ho questo in mano e uso questo. Noi invece pensiamo che ci siano altre alternative e altre necessità.
Qual è l’impatto ambientale dell’industria militare?
Non è solo l’industria militare: le guerre hanno un impatto ambientale devastante. Si parla di impatto umano e magari economico, non si parla mai di quello ambientale che è enorme: c’è un impatto della guerra ma anche della militarizzazione, della preparazione della guerra, della preparazione delle armi. Dovremmo capire tutti che la questione ambientale è la questione cruciale, anche per la vita delle persone. Vediamo subito una morte che avviene lì per lì, per un proiettile. Non vediamo gli effetti di un territorio inquinato dalla guerra solo perché sono molto più lenti e diluiti nel tempo, non perché siano minori.
E questo tipo di minacce strutturali non hanno avuto lo stesso tipo di reazione che si è avuto con la guerra: ora per mandare armi e fondi, i soldi si sono trovati immediatamente; col Covid l’UE ci ha messo un anno e mezzo a definire un Recovery Plan; con la transizione ecologica non si sono ancora trovati e anzi si dice che non lo sa si possa fare alle spalle delle aziende. Eppure è qualcosa che farà più morti della guerra in Ucraina. Ma sono morti meno cruente ed evidenti e quindi passano in cavalleria. Questo è interessante.
In un paese in cui il Parlamento non è mai d’accordo su nulla, il 2% del Pil agli armamenti è stato votato all’unanimità. E intanto più di metà del paese è contraria, e gran parte anche a mandare armi in Ucraina. Cosa sta succedendo?
Questa volta non era esattamente l’unanimità ma quasi, però l’unanimità c’era già stata in altre situazioni del genere, sempre sulle armi. Dall’agosto 2021 la Difesa ha mandato al Parlamento 31 richieste di nuovi sistemi d’arma (15 miliardi di euro subito ed eventualmente 30 e se ci saranno le altre tranche) e quelle che sono state votate finora sono passate all’unanimità, cosa che su altri temi non accade mai. Ma sulla spesa militare per motivi politici, culturali, di influenza, non si può dire niente, si ha paura di venire presi per anti-italiani.
Quindi è una cosa che stava avvenendo già prima ma che non rispecchia il vero sentire. Anche prima di questa guerra la percentuale di italiani contraria all’aumento della spesa militare era molto alta. Ed è anche interessante come vengono posti e presentati i sondaggi. In un sondaggio dell’anno scorso sull’export di armi, il 46% degli intervistati diceva che era del tutto contrario all’esportazione di armi all’estero; il 48% diceva che non si devono mandare armi all’estero se nel paese non si rispettano diritti umani. Quindi un 94% fra contrari del tutto e contrari con riserve. Ecco, questa risposta che a me sembra chiarissima veniva definita “controversa”! Per il semplice motivo che andava contro l’idea predominante di “esportiamo, esportiamo, esportiamo”. Hai ragione a sottolinearlo perché se continuiamo a riempirci la bocca di democrazia non possiamo non dare importanza al fatto che la popolazione vada da una parte e il parlamento sia schiacciato tutto dalla parte opposta. Qualche dubbio su come il volere della popolazione si trasmetta alle istituzioni pubbliche mi viene.
È un’industria così potente in Italia?
Non è solo l’industria in sé, è proprio un fatto culturale: dire “Difendiamoci” è più facile, senza farsi domande su cosa concretamente serva. Ed è anche più utile a fare carriera. I parlamentari che ci hanno seguiti su dei progetti non sono stati rieletti e chi portava nostre istanze ora non lo fa più ma anzi si trova in ottima posizione all’assemblea della Nato. Chi entra in Parlamento capisce che se sta in una posizione militarista e atlantista carriera la fa. Non c’è solo l’industria, ci sono anche i giornali che vanno in quella direzione, i think tank che vanno in quella direzione (e anche quelli sono legati all’industria). A capo di Agenzia industria e difesa o altre fondazioni del genere ci sono quasi sempre ex politici del centro sinistra, ben felici di finire lì la loro carriera in posizioni visibili e ben remunerate, come premio per aver portato avanti certe posizioni e aperture. E questo nonostante il paese, anche per cultura cattolica e di una certa sinistra, non vada in quella direzione. Ed è molto più facile che queste aperture vengano da politici che stanno in compagini che non sono dichiaratamente di destra. Se questa richiesta di armi in più l’avesse fatta La Russa ai suoi tempi figurati che delirio. Invece se la fa Guerini, che è del Pd, centrista democratico e cattolico, fa meno scalpore. Quindi ripeto, non è solo l’industria, anche perché l’Industria in Italia ha delle leadership create dallo Stato: Leonardo e Fincantieri sono a controllo statale. C’è quel mondo di interessi economici, politici, manageriali a cui conviene fare queste scelte, facendo anche contenti anche gli Stati Uniti. Come duemila anni fa, continuiamo a portare avanti il principio “si vis pacem para bellum”. Abbiamo cambiato tante altre idee da allora, non capisco perché dobbiamo continuare a ragionare secondo questa.
Quanto riscontro vi sembra abbia la vostra attività in questo momento?
In questo momento mi sembra che su tante cose, soprattutto il tema spese militari, siamo tornati indietro di decenni, qualsiasi proposta fai vieni trattato da putiniano. Dall’altra parte abbiamo dalla nostra la coerenza, non ci siamo svegliati adesso. Credo però che ci si renderà sempre più conto che la soluzione della militarizzazione non è una vera soluzione. In questi giorni ci sono giornate mondiali contro la spesa militare; insieme a Sbilanciamoci abbiamo fatto anche noi 4 proposte specifiche al Parlamento. Forse però il tema su cui ora si possono fare dei passi avanti è quello del nucleare: è ancora più evidente di prima che la presenza di armi nucleari non garantisce una sicurezza ma anzi pone una minaccia ancora più forte. Molte delle cose che Putin sta facendo non le avrebbe assolutamente fatte senza avere dietro le spalle la minaccia nucleare che gli permette di fare davvero una specie die racket. Anzi, come diceva negli anni ’30 Smedley Butler, un generale americano, “War is a racket”. E anche i militari sono parte, sfruttata, di questo ingranaggio. Comunque il fatto che in Italia una grande fetta di popolazione sia contraria alle armi ci permette di andare avanti.