Articolo di Alessandro Canella per Radio Città Fujiko
Le ultime ore nei palazzi della politica stanno rivelando come il riarmo sia un dogma del governo guidato da Mario Draghi. Al punto che lo stesso premier lega all’approvazione di un decreto che innalzerebbe le spese militari fino a raggiungere il 2% del pil lo stesso patto di maggioranza.
«Draghi e Mattarella uniti sull’aumento delle spese militari. Ci sarà la conta in aula e chi vota no è fuori», titola questa mattina la Repubblica. Al centro del dibattito la posizione del M5S, in particolare di Giuseppe Conte, contrario all’aumento.
«Draghi ha tenuto a dire che è importante rispettare gli impegni Nato – ha spiegato Conte dopo un colloquio col premier che gli ambienti parlamentari descrivono come tesissimo – Io ho spiegato che non ho mai messo in discussione il tendenziale al 2% come non è stato messo in discussione dai premier precedenti. Però se noi ci diciamo questo orizzonte del 2024, avremo un picco notevole: si tratta di 15 miliardi e, francamente, credo che i cittadini e il Paese adesso abbiano altre priorità. Questo non significa dire che l’Italia non rispetta gli accordi. Questo non verrà detto e io stesso non l’ho detto».
Spese militari: nessun obbligo, è una scelta politica
Per Draghi non si può venir meno agli impegni con la Nato, ma è sulla natura di questi impegni che si gioca la partita.
«Non c’è alcun obbligo formale e vincolante nei confronti della Nato – spiega ai nostri microfoni Francesco Vignarcadell’Osservatorio Milex e della Rete Italiana Pace e Disarmo – Il limite del 2% del pil per la spesa militare era stato inizialmente indicato nel 2009 da una riunione dei ministri della Difesa e confermato in un summit in Galles nel 2014, quello dopo l’invasione della Crimea, dai capi di Stato e di governo». Il punto, però, è che non c’è alcun trattato che vincoli l’Italia all’aumento, né si parla del bilancio della Nato, a cui il nostro Paese contribuisce già per l’8,4%.
«Non essendoci un trattato internazionale, né un’impostazione del Parlamento nelle leggi di bilancio, l’aumento delle spese militari è una scelta politica – osserva Vignarca – Ed è proprio l’obiettivo del 2% del pil ad avere poco senso proprio dal punto di vista tecnico».
Non c’è infatti una ragione strategica che giustifici il 2% e perché, invece, non debba essere l’1,9% o il 2,2%. Ma soprattutto è un parametro impossibile da utilizzare in sede previsionale. «Non sappiamo nemmeno quant’è il pil del 2022, figuriamoci com’è possibile prevedere il pil del 2023, che oltretutto considera anche la ricchezza privata», osserva l’esponente dell’Osservatorio Milex.
Diverso sarebbe stabilire un limite minimo delle spese militari sul budget dello Stato: «Il bilancio dello Stato dice che spende tot, una percentuale di quel tot».
Quanto ha già speso l’Italia e quanto spenderebbe in più
L’Osservatorio Milex ha calcolato che la spesa militare italiana è già cresciuta negli ultimi anni. In particolare nel 2022 si spenderanno 25,8 miliardi di euro, mentre nel 2019 era inferiore a 22 miliardi. Un incremento di 4 miliardi in 4 anni, trainato dalla spesa per nuovi armamenti: investimenti per l’acquisizione di carri armati, navi e aerei.
Solo per questa voce di bilancio, la spesa nel 2019 era di 4,7 miliardi, mentre nel 2022 sarà di 8,2 miliardi: un aumento del 75% in quattro anni per l’acquisizione di nuovi sistemi d’arma.
Con l’aumento delle spese militari che la politica si appresta ad approvare, la spesa militare schizzerebbe ulteriormente in alto, in particolare di 13 miliardi. Il 2% del pil, al netto dei problemi di calcolo specificati precedentemente, secondo le stime potrebbe portare la spesa italiana a 38 miliardi di euro l’anno. Un’esagerazione, se si considera che nel 2019 l’Italia ha investito nel settore istruzione 70 miliardi di euro, mentre per la cultura è di appena 5,1 miliardi. In altre parole, il nostro Paese arriverebbe ad avere spese militari che sono il 54% delle spese per l’istruzione e quasi otto volte quelle per la cultura.
Le spese militari, in sostanza, sottraggono risorse al welfare. Sanità, scuola, lavoro, trasporto pubblico: sono solo alcuni dei settori che, durante la pandemia, hanno mostrato le loro fragilità e che richiederebbero investimenti maggiori. «L’aumento delle spese militari sottrae risorse, ma soprattutto impedisce di investire in altri settori fondamentali – osserva Vignarca – Oltretutto senza nemmeno poter mantenere la promessa di maggior sicurezza, perché il riarmo crea più instabilità e meno sicurezza».
L’attivista ricorda quanta fatica, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, facesse il Parlamento per trovare pochi milioni di euro per il cosiddetto “Bonus psicologo”. Mentre per un aumento di miliardi della spesa militare sono bastati pochi giorni.
Un dogma della politica completamente scollegata dal Paese
Se non sussistono obblighi verso la Nato che possano giustificare l’aumento delle spese militari, ma si opera nel campo delle scelte politiche, il riarmo appare quindi come un dogma del governo e del Parlamento.
«Sembra veramente l’unica cosa su cui non si può discutere in questo Paese – commenta il portavoce della Rete Italiana Pace e Disarmo – perché si viene zittiti dai presidenti del Consiglio o dai presidenti della Repubblica di turno».
Vignarca imputa il fenomeno in parte all’influenza che hanno le lobby dell’industria militare: «Fare quel tipo di politica porta dei vantaggi, anche di carriera».
In particolare, già prima dello scoppio della guerra in Ucraina, nel 2021 furono presentati ben 31 nuovi sistemi d’arma. In tutti i voti che ci sono stati in Parlamento, cioè 24, si è registrata l’unanimità. «Non c’è stato nemmeno un voto contrario – osserva Vignarca – e tutti coloro che nella precedente legislatura hanno chiesto più trasparenza o una discussione sulla spesa militare, non sono stati riconfermati».
Questo apre un tema fondamentale per una democrazia: la rappresentanza. I sondaggi che stanno circolando in questi giorni sull’orientamento degli italiani verso l’aumento delle spese militari non riportano di certo un unanimismo pretesto da Draghi e Mattarella in Parlamento.