La nuova corsa agli armamenti
Poco più di un anno fa, il 23 marzo nelle fasi iniziali della pandemia, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha invocato un cessate il fuoco globale: «Ora è il momento di una nuova spinta collettiva per la pace e la riconciliazione. (…) Il mondo ha bisogno di un cessate il fuoco globale per fermare tutti i ‘conflitti caldi’ e contemporaneamente dobbiamo fare di tutto per evitare una nuova ‘guerra fredda’ ». Proposta subito ripresa da papa Francesco che nell’Angelus del 29 marzo 2020 ha chiesto di fermare «ogni forma di ostilità bellica» durante un’emergenza «che non conosce frontiere».
Richiesta ribadita ulteriormente nel messaggio di Pasqua: «Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite».
A un anno di distanza dobbiamo amaramente constatare che queste voci profetiche sono rimaste inascoltate. Se pensiamo ai conflitti in corso in Yemen, Siria, Libia, Etiopia e in molte altre parti del mondo; alle copiose forniture di armi che ne derivano; ai bilanci militari al loro livello più alto di sempre; all’industria delle armi che sta vivendo un boom economico; ai negoziati internazionali per il controllo delle armi indeboliti e faticosi e alle rivalità geopolitiche intensificate, è evidente che la direzione sia contraria ad una «spinta per la pace e la riconciliazione».
Rischiamo invece l’inizio di una nuova corsa agli armamenti e forse anche di nuove contrapposizioni in stile ‘guerra fredda’. Dimostrando che ci sono crisi globali impossibili da risolvere a livello nazionale, la pandemia avrebbe potuto essere un campanello d’allarme in grado di portare a una riduzione dell’alta spesa militare a livello globale, ma i dati ci dicono che ciò non sta avvenendo. In questi giorni il nostro Osservatorio Mil€x ha diffuso le nuove stime sulla spesa militare italiana: circa 25 miliardi per il 2021 con una crescita di oltre l’8% rispetto allo scorso anno e superiore al 15% sul 2019, soprattutto per molti più fondi messi a disposizione dell’acquisto di armamenti (oltre 7 miliardi nell’anno in corso).
Mentre il Sipri di Stoccolma ha appena pubblicato i nuovi dati mondiali per il 2020: 1.981 miliardi di dollari totali con una crescita del 2,6% sull’anno precedente. Xi Jinping di fronte al Congresso nazionale del popolo del marzo 2021 ha invitato i militari a stare pronti in una «situazione sempre più insicura» e il budget militare della Cina continuerà la sua crescita nonostante sia già più che raddoppiato nell’ultimo decennio. Una settimana dopo il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha annunciato con orgoglio che «il 2020 ha segnato il sesto anno consecutivo di crescita della spesa per la difesa con un aumento in termini reali del 3,9% dal 2019 al 2020».
Questa crescita nella spesa per gli eserciti si trasmette immediatamente al commercio di armi che vede principale destinazione il Medio Oriente, polveriera del mondo. Il più grande importatore di armi è l’Arabia Saudita, ma anche altri Paesi di quella regione sono al vertice della classifica (Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti, come pure Israele e Turchia). Non è sorprendente: le crisi alimentano il commercio globale di armi e ciò garantisce lauti affari alle industrie militari in particolare di Usa, Francia, Germania, Cina, Russia… senza dimenticare quelle italiane e britanniche.
Nonostante le tendenze scoraggianti, la società civile internazionale non si perde d’animo. In questi giorni è in corso la Campagna globale contro le spese militari Gcoms: centinaia di organizzazioni e associazioni chiedono ai Governi di spostare i fondi dagli eserciti alla cura, dalle spese militari al finanziamento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e per la cancellazione della povertà. Sono obiettivi che possiamo ottenere solo con una mobilitazione globale e facendo sentire la nostra voce ai leader mondiali. Per questo il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres dovrebbe ripetere a gran voce il suo appello, rimettendo l’Onu al centro dei negoziati. Magari cominciando finalmente a superare lo stallo di un Consiglio di Sicurezza in cui siedono gli Stati che possiedono quasi tutte le 13.400 testate nucleari presenti al mondo e sono responsabili di oltre tre quarti del commercio di armi e di oltre il 60% della spesa militare globale.
Non è un compito facile, ma durante la guerra fredda tra Est e Ovest le minacce imminenti di distruzione reciproca erano ancora più scoraggianti e pericolose. Dobbiamo dunque continuare a sostenere le voci che chiedono un’inversione di tendenza e la liberazione di risorse per affrontare i veri problemi globali come la pandemia, il cambiamento climatico e la povertà diffusa.