Un bel resoconto del mio webinar “L’industria militare italiana e le proposte dei movimenti per la Pace” che ha completato il programma del convegno “Torino, città delle armi?”, del 3 ottobre 2020 al Centro Studi Sereno Regis nell’ambito del “Festival della Nonviolenza”.
L’incontro viene introdotto da Zaira Zafarana del gruppo di Coordinamento AGiTe e ha visto la partecipazione di Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Pace e Disarmo.
AGiTe lotta da sempre in prima linea contro armi atomiche, guerre e i terrorismi raggruppando cittadini, rappresentanti delle istituzioni locali e sindacati che hanno scelto di collaborare anche in occasione dei negoziati per l’approvazione del trattato della messa al bando delle armi nucleari .
Il coordinamento ha rivolto infatti un appello alla cittadinanza e alla rete Pace e Disarmo per convincere l’Italia a entrare a far parte dei negoziati, purtroppo non ottenendo gli esiti sperati.
Nel corso dei tre anni però, molti paesi hanno scelto di preservare la vita in tutte le sue forme, ratificando il trattato e il 24 ottobre 2020 si è raggiunto il traguardo della cinquantesima ratifica.
Francesco Vignarca ha trattato non solo delle odierne preoccupazioni locali già toccate durante l’incontro del 10 ottobre, ma ha messo in luce quei dati che l’industria bellica promuove per interessi personali ma che in realtà sono palesemente distorti.
Quando si parla di industria militare bisogna cominciare dicendo che spesso viene raccontata attraverso una narrativa esplicitata proprio da coloro che traggono vantaggio da questo comparto.
Ci si pone quindi l’obiettivo di smontare quelli che sono i miti che stanno alla base della concezione dell’industria bellica soprattutto quelli in termini di “investimento”.
Partiamo dai dati
L’industria in questione fornisce dati attraverso due fonti: AIAD (Federazione aziende italiane per l’Aerospazio, Difesa e Sicurezza) e Leonardo (azienda d’impatto nel comparto).
Come chiave di lettura dobbiamo tenere in considerazione che quando diamo una dimensione dei fatturati, che sia di Leonardo o di AIAD, dobbiamo sempre ricordarci che non si tratta solo di industria militare ma anche di aerospazio e difesa e dunque i dati vanno sempre scremati.
La Leonardo parla di un fatturato di 13,5 miliardi l’anno con 29 mila addetti e afferma che nel 2019 è stata del 72% la spesa del fatturato riferita a prodotti militari. AIAD segnala invece un 16,4 di fatturato e gli occupati diretti sarebbe circa 45 mila. Iniziamo infatti a riscontrare le prime anomalie…
Proviamo dunque a fare qualche confronto e immaginiamo un fatturato di tutto il comparto militare e della difesa italiana di 17 miliardi, rispetto al 2019, rappresenterebbe lo 0,9% del PIL. Se andiamo a valutare questi numeri vorrebbe dire che l’export della difesa italiana sarebbe di 11,3 miliardi corrispondente al 2,35% dell’export complessivo.
Quello che emerge dai dati è che non stiamo parlando di un industria principale che comporta per l’Italia un bilancio economico essenziale, si parla infatti di numeri residuali.
Vignarca spiega le due ragioni principali per le quali questi numeri non possono essere realistici.
- In primis la stessa Leonardo attraverso documenti ufficiali ci dice che se il fatturato totale è di ben 11,3 miliardi non è possibile che abbia un export di 2,9 miliardi, si tratta infatti di un numero sovrastimato e rilanciato ogniqualvolta si fa un’audizione parlamentare o in qualunque situazione in cui si deve dimostrare che siamo davanti a una grande industria.
- Il secondo indizio è il controllo normativo che avviene attraverso la legge italiana. Infatti è la legge 185 del ’90 che regola l’importazione e l’esportazione di armamenti militari e nello stesso tempo fornisce una serie di valutazioni tra cui autorizzazioni che lo stato rilascia di anno in anno. Anche qui emerge un dato molto chiaro: l’export si attesta sui 3 miliardi. Ancora una volta troviamo numeri che dimostrano che si tratta di un industria secondaria.
Posti di lavoro
Gli addetti al lavoro nel settore militare sono circa dello 0,21% della forza lavoro complessiva (con un indotto del 0,65%) . Nonostante non si tratti di numeri importanti c’è la consapevolezza del valore e della sacralità di ciascun posto di lavoro ma la domanda è: “vale la pena investire soldi pubblici italiani per mantenere industrie di questo tipo?“.
E soprattutto vale la pena sapendo che la maggior parte dei prodotti che andranno esportati alimenteranno conflitti e creeranno un mondo più insicuro, povero e problematico con la conseguenza di andare a ledere interessi anche di atri comparti? Al di là delle ragioni etico e morali dunque bisogna anche riflettere sul lato economico.
È conveniente investire su un’impresa che alimenta conflitti altamente costosi per uno 0,9% del PIL? Secondo Vignarca no. Purtroppo però da sempre regna la retorica del rendersi più forti, soprattutto in periodi di instabilità, dove avviene quella che viene chiamata una “corsa agli armamenti“ per armarsi contro un nemico che la maggior parte delle volte non esiste.
Preoccupazioni locali
Nel caso specifico di Torino, la sua dinamicità soprattutto dal punto di vista aereospaziale e la presenza di un ambiente sviluppato e ricco, la rendono altamente “vendibile”. Alle industrie non rimane altro che portare risorse in quello che è un incubatore di ricerca già ben definito.
Nell’industria militare, come abbiamo visto, si parla sempre di grandi numeri. Una delle promesse più utopiche fatte alla Regione Piemonte e non mantenuta riguarda la produzione di alcune parti di F35 e dell’assemblaggio di alcuni aerei a Cameri, in provincia di Novara.
Lo stato ha finanziato 800 milioni di euro per poter costruire la struttura (che diventerà successivamente Leonardo velivoli) con promesse di 10 mila posti di lavoro poi ridotte a 6 mila.
I dati impietosamente parlano di tutt’altri svolgimenti: per il 2019 per produrre solo 41 arti alari e per assembrare 3 F35 con un fatturato di 433 milioni di euro si è riscontrato un organico di 955 unità. Si tratta infatti del 10% di quello che i proponenti avevano promesso e 1/6 di quello che era stato riaccordato dopo le prime contestazioni.
Studi oltreoceano
Due università americane del Massachusetts hanno calcolato il riscontro in termini di posti di lavoro che si avrebbe in diversi settori dopo la stessa iniezione di denaro. I dati rilevano che per ogni milione di dollari investito nella difesa si ottengono meno di 7 posti di lavoro.
Investendo lo stesso milione di dollari in energia eolica 8.4, nell’energia solare 9.5, nell’educazione elementare secondaria 19.2, nell’educazione superiore 15.2 , nelle infrastrutture 9.8 e nella sanità 14.2.
In tutti questi casi l’investimento in settori diversi da quello dell’industria bellica ha non solo un impatto positivo di posti di lavoro diretti ma anche indiretto.
L’importanza di questo studio si denota proprio dal luogo in cui è elaborato. Gli USA sono infatti il paese con i tassi di investimento più elevati nell’industria militare.
Cosa possiamo fare noi cittadini?
Ci si chiede dunque quali possono essere le alternative o proposte concrete che si possano mettere in atto. Sicuramente approfondire e diffondere attraverso questi webinar è il miglior modo per scardinare quei dati falsati, che molto spesso vengono mostrati a giustificazione di ingenti investimenti verso un industria, con un impatto sia economico che etico, inconveniente.
Se molti cittadini fossero a conoscenza di questi dati ci si renderebbe conto di quanto una riconversione industriale sia il miglior percorso che il nostro paese possa perseguire.
In Italia e non solo si sta verificando un antagonismo fra diritti. Un diritto infatti, non può essere privilegiato a discapito di un altro e un interesse di un particolare settore non può entrare in contrasto con un diritto alla pace e alla vita.
Il coordinamento A.G.iTe si propone di combattere questa battaglia morale cercando di scardinare quella che sembra una vera e propria aerea protetta, svelando che in realtà l’illusione di un interesse di tanti è in realtà solo quello di pochi.