Intervista per “il Settimanale” di Como. Francesco Vignarca della Rete Italiana per il Disarmo chiede all’Italia una moratoria di un anno sull’acquisto di armamenti. «Avremmo 6 miliardi per scuole e sanità»
Una moratoria di un anno da parte dell’Italia sull’acquisto di armamenti permetterebbe, in questo tempo di crisi, di liberare circa 6 miliardi di euro da destinare a sanità e scuola. A formulare la proposta è il comasco Francesco Vignarca (nella foto con papa Francesco), coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo e autore di Milex il primo osservatorio sulle spese militari italiane. “Come Rete – precisa Vignarca – facciamo una precisa richiesta al governo: così come in tante famiglie, a causa della crisi, si deciderà di rinviare qualche spesa non necessaria, come cambiare la macchina o ristrutturare casa, noi chiediamo un rinvio delle spese militari per l’acquisto di armamenti. Non stiamo parlando degli stipendi dei soldati o dei carabinieri, ma di sistemi d’arma e mezzi come carri armati, aerei ed elicotteri da combattimento, sottomarini e missili che verranno messi a bilancio nel 2021. Tutti strumenti di cui l’Italia è già in possesso e per cui un rinvio non pregiudicherebbe le nostre capacità di difesa”.
E’ questo uno dei punti centrali della nostra chiacchierata con Vignarca a cui abbiamo chiesto di aiutarci a leggere i dati sulle spese militari nel mondo contenuti nell’ultimo rapporto pubblicato dall’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI).
Partiamo dai dati complessivi: cosa ci dice il rapporto 2019 del SIPRI?
«Ci dice prima di tutto che la spesa militare globale ha superato per la prima volta nella storia i 1900 miliardi di dollari, con un crescita di 100 miliardi rispetto all’anno precedente. Per il resto i trend sono abbastanza stabili: c’è un pezzo di mondo – parlo dei Paesi occidentali oltre a Cina e Russia – che, dopo un calo legato alla crisi del 2009, ha ripreso a riarmarsi e che è responsabile di oltre la metà della spesa militare globale. In seconda fascia ci sono altri Paesi, come India e Arabia Saudita, che per colmare il divario stanno investendo in modo molto consistente nel militare».
E l’Italia?
«Per la prima volta nel 2019 abbiamo superato la cifra dei 25 miliardi di euro di spesa e i dati di previsione del 2020 ci parlano di un ulteriore aumento di 1,5 miliardi rispetto al 2019».
Guardando alla crisi economica in atto e alla necessità di reperire fondi per la ripresa stupisce constatare l’assenza, nel dibattito pubblico e politico, di proposte di tagli alla spesa militare…
«Purtroppo stiamo assistendo ad una fortissima azione politica e di propaganda da parte delle lobby dell’industria bellica che, ad ogni livello, stanno spingendo perché i piani di spesa già approvati e in via di approvazione non vengano messi in discussione. Anzi, c’è chi va dicendo che questo è il tempo per aumentare la spesa militare. Ma io dico: quanti letti di terapia intensiva si potrebbero garantire rinunciando ad un solo sottomarino U-112 (costo stimato 650 milioni di euro)? Le nostre stime dicono 6500. Noi non discutiamo la spesa militare tout court, ma la spesa improduttiva, la spesa per armamenti e chiediamo il rinvio degli impegni non ancora sottoscritti».
Proposte non molto popolari di questi tempi…
«C’è solo un leader internazionale che, non da oggi, dice queste cose ed è Papa Francesco. Il 20 febbraio scorso durante un incontro organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali ha detto: “la più grande struttura di peccato, o la più grande struttura d’ingiustizia, è la stessa industria della guerra”. Se confrontiamo i 1900 miliardi delle spese militari del 2019 con i 160 miliardi per l’Aiuto pubblico allo sviluppo ci rendiamo conto di quale sia il futuro che vogliamo costruire, quello per cui ci stiamo preparando. Se vendi armamenti per miliardi di euro ogni anno, verso Paesi già in conflitto o in situazioni di tensione internazionale, non puoi stupirti se questi vengono poi utilizzati. E i grandi produttori sono sempre quelli: i Paesi Occidentali, Stati Uniti in testa, Russia e Cina».
In Italia di fronte alle proposte di tagli alla spesa militare, c’è però chi mette in guardia da un possibile danno alle industrie del comparto della difesa – penso soprattutto a Leonardo Spa – che rappresenta un’eccellenza tecnologica italiana oltre che ad un’importante fonte di occupazione (oltre 40 mila addetti)…
«Credo ci siano tanti falsi miti attorno all’industria militare: l’export militare italiano rappresenta lo 0,6% del totale del valore delle esportazioni e in termini economici vale molto meno rispetto ad altri settori: penso ai macchinari agricoli o al comparto agroalimentare. Per fare una battuta: l’Italia guadagna più dall’esportazione di mozzarelle e prodotti caseari che non dai carri armati. Non credo vi sia una reale motivazione economica dietro questo sostegno all’industria militare, ma la motivazione è politica. Con questo non voglio dire che imprese come Leonardo debbano smettere di esistere o lavorare, ma convertirsi sempre più al civile (che già hanno) mettendo il proprio patrimonio di tecnologia e competenze al servizio di strumenti più utili alla collettività: penso agli elicotteri per il soccorso, ai “canadair” di cui in Italia c’è una grande carenza e ai mezzi della Guardia costiera. Se il problema dello Stato è far lavorare le proprie aziende, facciamole lavorare per qualcosa di veramente utile. Per un’economia di pace».
«Nel 2019 spesi 1917 miliardi. Cifra mai così alta»
Oltre millenovecento miliardi di dollari, 1917 per l’esattezza con un incremento (in termini reali) del 3,6 per cento rispetto al 2018 e del 7,2% in confronto a dieci anni fa. A tanto ammontano le spese militari nel mondo, secondo quanto indicato dall’ultimo rapporto del SIPRI (l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), comprensive di stipendi del personale delle forze armate, operazioni militari e acquisti di sistemi d’arma (bombe, missioni, mezzi). Al netto dell’inflazione stiamo parlando del livello più alto dal 1988, praticamente al culmine della Guerra Fredda; una cifra che corrisponde al 2,2% del Pil globale. I dati del Sipri, relativi al 2019, confermano il protagonismo dei cinque principali attori che sono responsabili del 62% della spesa militare globale: al primo posto troviamo gli Stati Uniti con 732 miliardi di dollari spesi e una crescita del 5,3%, seguiti dalla Cina 261 miliardi (+5,1%), India 71 miliardi (+6,8%), Russia 65,1 miliardi (+4,5%) e Arabia Saudita 61,9 (-16%). Seguono Francia, Germania e Regno Unito per complessivi 147 miliardi di dollari di spese militari. L’Italia è al dodicesimo posto con una spesa di 26,8 miliardi di dollari e un incremento dello 0,8% e una percentuale sul Pil del 1,4%. Guardando a questi dati è necessaria un’avvertenza: è possibile che i dati sui singoli anni (e il conseguente confronto con l’anno precedente) possano contenere piccole storture legate ad investimenti per l’acquisto di mezzi particolari. Molto più importante è guardare al trend decennale e, allo stesso modo, nel confrontare le spese tra i vari Paesi, è importante guardare al dato della percentuale della spesa sul Pil piuttosto che al mero dato numerico. Prendiamo ad esempio l’Arabia Saudita: il calo del 16% registrato nel 2019 va letto considerando l’aumento consistente dell’anno precedente (legato anche alle spese sostenute per la guerra in Yemen). Complessivamente, infatti, l’Arabia Saudita ha visto crescere la propria spesa militare del 14% dal 2010 arrivando ad una spesa nel 2019 corrispondente all’8% del PIL.