Il ruolo e il coinvolgimento del nostro paese in un con itto anomalo, sul quale l’Europa non riesce a dire una parola unitaria. Le forniture di armi pesano come macigni: la politica è chiamata a fermarne il commercio
mio articolo per Riforma
Le notizie e le immagini dell’attacco condotto dalla Turchia nel Nord-Est della Siria, in particolare contro le postazioni delle milizie curde che occupavano il territorio dopo la sconfitta di Daesh-Isis, hanno ovviamente fatto il giro del mondo. Come hanno fatto il giro del mondo le motivazioni addotte («serve una zona cuscinetto»), le mosse a favore (soprattutto degli Usa), l’incapacità di intervento (in particolare di Nato ed Unione europea). Il tutto ha comportato un drammatico impatto sui civili, rendendo anche complicato l’intervento delle organizzazioni umanitarie, in un territorio già segnato dagli 8 anni di guerra civile in Siria e dall’atavico problema della mancanza di uno Stato per le decine di milioni di curdi, distribuiti ormai da un secolo, e sempre per i calcoli politici delle grandi potenze, in diversi Paesi.
A parte l’ovvia rilevanza dal punto di vista umanitario e della vicinanza alle popolazioni colpite da questo ennesimo, ed unilaterale, atto di guerra, il conflitto in atto tocca l’Italia per un motivo ben specifico: la Turchia è da molti anni uno dei maggiori clienti dell’industria bellica italiana. Una situazione evidenziata in particolare dagli elicotteri T129 utilizzati dalle forze armate turche, di fatto una licenza di coproduzione degli elicotteri italiani di AW129 Mangusta, ma che vede molte altre tipologie di armamenti percorrere, o aver percorso di recente, la strada tra Roma e Ankara.
Come riportato immediatamente da Rete italiana per il Disarmo, con dati derivanti dall’elaborazione delle cifre fornite dalle Relazioni governative sull’export di armi, dal 2015 al 2018 l’Italia ha autorizzato forniture militari per 890 milioni di euro e consegnato materiale di armamento per 463 milioni di euro, con numeri in crescita ogni anno per entrambe le categorie. In particolare nel 2018 sono state concesse 70 licenze di esportazione definitiva, per un controvalore di oltre 360 milioni di euro, riferite ad: armi o sistemi d’arma di calibro superiore ai 19.7mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro, aeromobili e software. Autorizzazioni accumulate negli anni che hanno consentito un robusto flusso di vendite anche nel 2019: tra gennaio e luglio dall’Italia sono partiti 64,4 milioni di euro di armi e munizioni di tipo militare, secondo i dati Istat. Nello stesso periodo erano stati trasferiti solo 20,9 milioni nel 2018 e 31,3 milioni nel 2017. È evidente come questa tipologia di fornitura di tipo militare possa essere direttamente coinvolta nelle operazioni lanciate al confine con la Siria da parte dell’esercito di Ankara.
Ecco quindi il motivo del coinvolgimento “diretto” del nostro Paese nel conflitto, e il motivo impellente per cui non solo l’opinione pubblica se ne deve occupare, ma anche la politica. Dopo qualche tentennamento il Governo Conte, per bocca e decisioni del ministro degli Esteri Di Maio, ha definito un “atto interno” alla Farnesina che secondo le dichiarazioni ha sospeso il rilascio di nuove autorizzazioni all’export definendo una non meglio precisata “istruttoria” sulle licenze precedenti. Il tutto dopo che il tentativo di definire un embargo a livello UE era naufragato (tale passo avrebbe certamente avuto molta più efficacia rispetto a iniziative dei singoli Paesi, ma visti i tempi anche tecnici necessari una prima serie di stop nazionali era comunque la prima scelta da fare) e con decisioni simili prese anche da altri Stati: Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi, Germania, persino la Francia… ma con la sola Svezia ad aver bloccato esplicitamente anche contratti già in essere.
Un passo quindi che si può considerare solo “parziale” e che per essere realmente e concretamente efficace dovrebbe prevedere quantomeno la sospensione delle spedizioni fino a completamento della prevista istruttoria su ciascun contratto e su ciascuna autorizzazione. Le recentissime notizie di stampa che riportano di consegne ancora in corso per contratti autorizzati nel 2016 fa dimostrano come lasciare aperta la porta all’invio di armi già autorizzate prima di oggi renderebbe inefficace e inutile qualsiasi decisione sul futuro. Relegando quindi l’atto del Ministero degli Esteri a una mera funzione simbolica che non garantisce in alcun modo che altre armi italiane oltre a quelle già consegnate in passato non vengano utilizzate contro le popolazioni curde.
Una decisione di blocco totale e immediato, senza quindi dover mettere in campo istruttorie e verifiche sul passato, si sarebbe già potuta e dovuta prendere fin da ora anche nel rispetto del dettato Costituzionale (art. 11), della legge 185/1990 che regolamenta le esportazioni di armamenti e delle norme internazionali (Posizione Comune UE e Trattato Att) sottoscritte dall’Italia. In ultima analisi le organizzazioni pacifiste e disarmiste fanno ancora appello al Parlamento affinché faccia sentire la propria voce chiedendo uno stop totale e immediato delle forniture di sistemi militari di produzione italiana fino a che la situazione non sarà chiarita. L’appartenenza della Turchia alla Nato non può costituire un alibi per non affrontare la questione e assumere le necessarie decisioni.