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L’Italia e la guerra dei droni: un mare di incognite

La guerra del futuro si combatterà a una consolle. Le perdite che si infliggeranno saranno quelle di sempre. Quelle subite si ridurranno proporzionalmente all’arretratezza tecnologica dell’avversario. Dal 2004, sono stati gli Stati Uniti a usare in modo sempre più massiccio i droni armati, velivoli telecomandati senza pilota ma dotati di missili. Sotto l’amministrazione Obama ufficialmente sono stati condotti 473 attacchi, con un numero di civili uccisi compreso tra i 64 e i 116 nel periodo 2009-15, secondo quanto scritto in un decreto presidenziale del luglio 2016. Fonti giornalistiche, però, ritoccano al rialzo i dati dell’ex presidente: per il Bureau of investigative Journalism, i morti sarebbero tra 380 e 801, il giornale Long War parla di 212, mentre la New America Foundation di 219.

LA CINA SFIDA GLI USA. Tra le vittime civili, c’è anche il cooperante italiano Giovanni Lo Porto, ucciso da un drone attivato dalla Cia al confine tra Afghanistan e Pakistan, nel gennaio 2015, per colpire un compound di Al Qaeda. Stime del governo americano ritengono che i “danni collaterali”, così vengono definite le vittime civili nei report ufficiali, siano tra il 10 e il 20% di chi è colpito in un attacco. Anche la Cina, da qualche anno, si è buttata nel mercato. Rifornisce con i propri droni anche Paesi, come l’Arabia Saudita, che gli Stati Uniti di Barack Obama avevano messo al bando per quanto riguarda la vendita di questo genere di armi. Ora Donald Trump, spinto dalle dinamiche del mercato, vorrebbe reinserire Riad nella lista dei clienti Usa.

Un velivolo senza pilota (Uav), paragonato a un F-35 di ultima generazione dal valore di 130 milioni di dollari, costa 17 volte meno

Il 19 aprile l’ Istituto di Ricerche internazionali Archivio Disarmo (Iriad) ha presentato alla Camera dei deputati il report «Droni militari: proliferazione o controllo?», uno studio che analizza i punti critici sollevati dall’adozione di queste armi di ultima generazione. I vantaggi, dal punto di vista militare, sono diversi. Il più evidente è la realizzazione, sulla carta, dell’obiettivo di “guerra a zero perdite”. Il secondo è di ordine economico: un velivolo senza pilota (Uav), paragonato a un F-35 di ultima generazione dal valore di 130 milioni di dollari, costa 17 volte meno. Gli Stati Uniti nel 2016 hanno stanziato, si legge nel rapporto, 2,9 miliardi di dollari «per potenziare il loro arsenale formato circa da 10 mila droni».

L’UE PUNTA SULL’EUROMALE. Non solo: per quanto droni civili e militari non siano la stessa cosa, alcune caratteristiche possono essere implementate anche nel primo ambito. I droni sono considerati beni “dual use”, proprio in virtù di questa doppia applicazione. Dal 2001 in avanti, i fondi di ricerca di progetti europei destinati ai droni sono diventati sempre più importanti, fino al lancio, a settembre 2016, del progetto Euromale, nell’ottica di realizzare entro qualche anno il primo Male – acronimo di Medium Altitude Long Endurance, tipo di drone che può viaggiare per giorni consecutivi – con soldi comunitari. «I tre co-contraenti, Leonardo-Finmeccanica, Airbus e Dassault Aviation, sono riuniti in un consorzio a cui partecipano Italia, Francia, Germania e Spagna», si legge nel rapporto.

MA CHI LI CONTROLLA? Il problema, però, è controllare l’utilizzo di questi velivoli. «Già in Paesi dove ci sono regole e catene di comando molto chiare non c’è trasparenza rispetto all’uso dei droni. Pensare a come potrebbe essere la situazione in Italia è una fonte di preoccupazione», spiega il coordinatore della Rete Disarmo, Francesco Vignarca. L’Italia è della partita droni già da diversi anni. Tra il 2008 e il 2009 il governo ha per la prima volta chiesto al Congresso americano il via libera per utilizzare la tecnologia General Atomics con la quale è possibile armare i droni Predator in dotazione all’Italia. È il metodo più economico, visto che già siamo in dotazione di una ventina di droni di fabbricazione americana, tra Predator e Reaper. Acquistarne di altra fabbricazione (i principali competitor degli Usa sono Israele e Cina) avrebbe un costo maggiore (il boom di export di armi italiane).

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La base di Sigonella.

«Il fatto che per diversi anni gli Stati Uniti abbiano detto no alla richiesta dell’Italia, Paese fidato e che compra moltissimi armamenti, fa capire quanto sia sensibile questa tecnologia», ragiona Vignarca. Poi la svolta nel novembre 2015: «Secondo quanto ci ha riferito in un incontro pubblico a novembre scorso il generale Vincenzo Camporini (oggi vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali, tra il 2006 e il 2008 capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e dal 2008 al 2011 della Difesa, ndr), sue fonti gli hanno riferito che tra un anno, un anno e mezzo, anche l’Italia avrà i suoi droni armati. Dal nostro punto di vista rileviamo che non esistono regole sull’uso dei droni e che non esiste una chiara catena di comando che prenda decisioni rispetto al suo utilizzo».

LE BASI SONO GIÀ A DISPOSIZIONE. Solo un giudice in Gran Bretagna si è appellato al principio centenario della “guerra preventiva” per giustificare l’utilizzo dei droni e creare una giurisprudenza. Per il resto l’Europa è silente. Eppure già è parte della guerra dei droni americana. Le basi di Ramstein in Germania e di Sigonella in Italia sono già state utilizzate per i bombardamenti dalla Libia all’Afghanistan. «Si vocifera di accordi presi con l’Italia ogni volta che un drone parte per uno strike da Sigonella, ma nemmeno i parlamentari della Commissione difesa sanno dare una risposta a come funzioni la catena di comando», conclude Vignarca. Un altro buco nero nel sistema dei controlli.

 

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