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La spesa militare italiana e i nuovi acquisti di armamenti

Mio articolo nel dossier “Armi e Spese militai” di Missione Oggi

La recente dichiarazione del ministro della Difesa descrive una situazione discrepante rispetto a quella emergente dai bilanci del suo ministero, che per il periodo di riferimento mostrano non un taglio, ma un aumento delle risorse del 7 per cento (da 19 a 20,3 miliardi) in sostanziale costanza del rapporto budget Difesa/Pil (1,28-1,25 per cento) – dato, quest’ultimo, indicativo della volontà politica di destinare alla Difesa una porzione fissa della ricchezza nazionale.
Un episodio che si potrebbe ridurre a “strategia o polemica politica”, ma che in realtà dimostra quanto sia necessario fare chiarezza sulla reale entità delle spese militari italiane, certamente non facili da quantificare, come dimostra la varietà di stime prodotte dalle principali organizzazioni e istituti internazionali che si occupano del tema come Sipri, Nato, onu, ocse e Iiss (Istituto internazionale di studi strategici, di Londra).

CIFRE E DATI DISCORDANTI
Ciascuna di queste organizzazioni adotta definizioni e metodi di calcolo molto diversi per rendere confrontabili le spese militari di tutti i paesi del mondo, che però risultano inevitabilmente poco precise nel rispecchiare la complessità e le peculiarità della realtà italiana. Nel nostro paese, infatti, la spesa militare non comprende solo il budget del ministero della Difesa (nel quale rientrano anche spese non legate alla “difesa” intesa come categoria funzionale), ma una serie di altre ingenti spese a carico di altri ministeri ed enti pubblici di non facile computazione.
Un’incertezza che il progetto Mil€x di un osservatorio sulle spese militari, attenendosi ai principi di obiettività scientifica e neutralità politica, sta cercando di diradare conducendo un’approfondita analisi documentale e contabile, ed elaborando un innovativo metodo di calcolo della spesa militare italiana in grado di rappresentare nel modo più corretto ed esaustivo possibile il com
plesso groviglio della spesa pubblica destinata annualmente al settore militare.
Una prima stima (che viene ampliata e dettagliata nel Primo rapporto annuale Mil€x sulle spese militari italiane, uscito a febbraio 2017), da cui si possono trarre diverse e importanti considerazioni. Ne toccheremo ora i punti principali.

DATI, TENDENZE, COMPOSIZIONE DELLA SPESA MILITARE
Dai criteri di analisi scelti (vedi box di pagina 26) deriva la possibilità diretta di conteggiare la spesa militare per l’anno appena iniziato e tracciare anche un trend per l’ultimo decennio. Previsionalmente, l’Italia ha deciso di stanziare nel 2017 oltre 23 miliardi e 300 milioni di euro per le spese militari. si tratta di oltre 60 milioni di euro al giorno, più di 2,5 milioni di euro all’ora e oltre 40mila euro al minuto! rispetto al 2016 si registra un aumento di meno dell’1 per cento a valori correnti (che diventa un lieve calo se si considerano valori costanti) con un’impercettibile flessione nella rapporto spese militari/Pil che rimane di poco inferiore all’1,4 per cento (flessione che potrebbe tramutarsi in incremento se il Pil 2017 dovesse risultare inferiore a quello previsto). operando un confronto a partire dal 2006 (anno per cui si possono ricavare dati coerenti) si registra un aumento della spesa militare di oltre il 20 per cento a valori correnti (che si traduce in un aumento di oltre il 4 per cento a valori costanti) e un aumento nel rapporto spese militari/Pil dall’1,25 per cento del 2006 all’1,37 del 2017. L’andamento storico evidenzia una netta crescita fino alla recessione del
2009 con i governi Berlusconi III e Prodi II, un calo costante negli anni post-crisi del quarto governo Berlusconi, una nuova forte crescita nel 2013 con il governo Monti, una flessione con Letta e il primo anno del governo Renzi e di nuovo un aumento negli ultimi due anni.
Analizzando la composizione delle spese militari secondo la metodologia di Mil€x il dato più eclatante riguarda il costo del personale di esercito, Marina e Aeronautica (quello dei Carabinieri è nell’apposita voce complessiva) che rimane l’ambito di spesa largamente preponderante, pari al 41 per cento del totale nel 2017. Questo perché nonostante la graduale contrazione generale del personale stia proseguendo come previsto dalla riforma “Di Paola” del 2012 (che stabiliva una riduzione da 178mila a 150mila uomini entro il 2024) il riequilibrio interno delle categorie a vantaggio della truppa e a svantaggio di ufficiali, anch’esso previsto dalla riforma, sta invece procedendo con lentezza. Le forze armate italiane rimangono infatti largamente caratterizzate dalla distorsione che vede un numero maggiore di “comandanti” (ufficiali e sottufficiali) rispetto ai “comandati” (graduati e truppa). In particolare, rielaborando i più recenti dati del ministero della Difesa risulta evidente che ci sono ancora troppi marescialli (oltre 50mila, pari al 30 per cento del totale – mentre secondo i piani al momento dovrebbero essere circa 46mila) e ancora pochi graduati e truppa (81mila uomini, pari al 47 per cento del totale – mentre nelle previsioni la quota era oltre gli 85mila). Date le notevoli differenze retributive tra le categorie l’attuale quadro del personale risulta ancora estremamente oneroso se confrontato con quello prefigurabile con un modello di forze armate a 150mila uomini e un più corretto equilibrio interno delle categorie: la differenza e di oltre 1,2 miliardi di euro l’anno, non pochi!

LE FOLLI SPESE PER NUOVI ARMAMENTI
Al di là delle pesantezze strutturali che le forze armate italiane si portano dietro da anni (sia per cattiva gestione, sia per sacche di privilegio dure da estirpare) e che incidono pesantemente pure sull’aspetto finanziario (elemento che dovrebbe preoccupare non solo chi contesta da una prospettiva pacifista la spesa militare, ma anche chi desidererebbe una funzione statale efficiente) l’elemento realmente dirompente ed emblematico riguarda i fondi destinati all’acquisto di nuovi sistemi d’arma. Cioè le (enormi) quantità di denaro che lo stato e il governo sborsano a favore delle aziende del complesso militare-industriale.
se consideriamo la spesa in armamenti, nel 2017 riscontriamo un aumento su tutta la linea rispetto al 2016: sia per lo stanziamento previsionale del bilancio Difesa per i programmi di acquisizione e ammodernamento di armamenti (+11 per cento), sia nei contributi che il ministero per lo sviluppo economico destina allo stesso scopo (+8,9 per cento). sommando le due voci si ottiene una spesa complessiva 2017 per acquisto sistemi d’arma che supera i 5,6 miliardi (pari cioè ad oltre 15 milioni di euro al giorno), con un aumento annuo di quasi il 10 per cento e arrivando a rappresentare quasi un quarto della spesa militare complessiva. Con lo scandaloso ed eclatante dato riguardante il Mise: quasi il 90 per cento degli incentivi alle imprese da esso erogato andrà al comparto difesa. Conseguenza di questo meccanismo di incentivi pubblici strutturali alle industrie del comparto difesa e un procurement distorto da logiche industrial-commerciali che poco hanno a che vedere con le reali esigenze strategico-operative dello strumento militare. Lo stato si pone al servizio dell’industria, prima assumendosi il rischio d’impresa tramite il finanziamento di tutta la fase funzionamento degenere, e pericoloso per la democrazia, del “complesso politico-militare-industriale”.
La decisione di destinare al comparto difesa gran parte delle risorse pubbliche a sostengo della politica industriale nazionale risale a Craxi, con l’approvazione della già citata legge 808 del 1985 per lo sviluppo e l’accrescimento della competitività delle industrie operanti nel settore aeronautico. Da allora, quello che all’epoca si chiamava ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato poi divenuto delle Attività Produttive e oggi dello sviluppo economico, ha regolarmente sovvenzionato l’industria militare nazionale, non più solo aeronautica, in virtù di nuovi finanziamenti decisi da governi di progettazione, sviluppo e realizzazione di prototipi pre-serie, poi garantendo tramite grosse commesse il finanziamento della fase di industrializzazione e produzione su vasta scala, ed infine agendo come procuratore di commesse estere nello spirito della legge 808/85 che poneva tra gli obiettivi “il miglioramento della bilancia commerciale”.
Per il nostro ministero della Difesa tutto questo si configura come un virtuoso “sistema paese” all’opera. Per il famoso e storico presidente Usa (prima ancora generale capo degli alleati nella seconda guerra mondiale) Eisenhower si sarebbe invece trattato del classico esempio di
di ogni colore a partire dai primi anni ’90 per un totale di oltre 50 miliardi di euro, considerando solo i programmi principali.
Nel 2017 beneficeranno di questo enorme salvadanaio Finmeccanica-Leonardo e le sue controllate, Iveco, OTOMelara, Fincantieri… per la produzione (e acquisto da parte statale) di elicotteri, veicoli blindati, aerei e cacciabombardieri, missili, portaerei e navi militari.
Una scelta miope e sbagliata che va a supportare pienamente e problematicamente almeno 112 aziende (12 grandi e cento piccole e medie) che coinvolgono 50mila occupati con 15,3 miliardi di fatturato (dati Aiad) penalizzando al contrario il settore industriale civile e in particolare il comparto della Pmi che da solo conta (al netto delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti) oltre 137mila aziende per un totale di 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato (dati Cerved).

 


COME CONTEGGIARE LA SPESA MILITARE

La scelta metodologica di base è quella di considerare le risorse destinate dallo Stato alla spesa militare (budget) e non la spesa effettivamente sostenuta (gestione di cassa). Dando così risalto alla scelta politica piuttosto che alla dinamica contabile, nella quale per altro entrano in gioco meccanismi contabili complessi che rendono difficile soppesare le spese effettivamente ascrivibili all’anno considerato. Con i finanziamenti in conto competenza stanziati nella Legge di Bilancio per l’anno successivo c’e invece certezza del dato temporale, senza incorrere in distorsioni legate ai successivi correttivi che intervengono in fase di assestamento e rendiconto. Si parte quindi dal dato governativo ufficiale (il Bilancio di previsione del ministero della Difesa) approvato a fine anno con la Legge di Bilancio e dalla loro versione dettagliata e sviluppata nei mesi successivi (Documenti programmatici pluriennali per la difesa). A tutto ciò si aggiungeranno i fondi di altri dicasteri che compartecipano strutturalmente alle spese militari. Da notare che per il 2017 si registra un “anomalo” aumento del bilancio Difesa dovuto all’accorpamento del Corpo forestale ai Carabinieri, per i quali inoltre viene escluso il costo relativo alle funzioni di polizia svolte considerando solo il costo relativo all’impiego nelle missioni militari all’estero e alle funzioni di polizia militare. La seconda scelta metodologica è quella di includere nel nostro ricalcolo delle spese militari i finanziamenti annualmente destinati alle missioni all’estero in sede di approvazione delle leggi di conversione dei decreti (semestrali fino al 2015, annuali dal 2016) di proroga della partecipazione delle forze armate italiane alle missioni all’estero. Finanziamenti totalmente a carico del ministero dell’Economia e delle Finanze, presso il quale dieci anni fa è stato istituito un apposito “fondo missioni” (rifinanziato mediamente per circa un miliardo di euro l’anno), ma che finiscono a sostenere strutturalmente addestramento e dispiegamento di forze militari. La terza scelta metodologica – la più rilevante dal punto di vista non solo economico, ma anche politico – riguarda l’inclusione nel ricalcolo delle spese militari dei sempre più massicci contributi del ministero dello Sviluppo economico ai più onerosi programmi di acquisizione e ammodernamento di armamenti della Difesa (programma F-35 escluso). Cifre che, tra stanziamenti diretti e contributi pluriennali, superano ormai i 3 miliardi l’anno, cioè gran parte dell’intero budget annuo del Mise destinato alla principale missione del ministero, ovvero gli investimenti a sostegno della “Competitività e sviluppo delle imprese” italiane. (f.v.)

 

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