Il 15 gennaio 2015, in un territorio al confine tra Afghanistan e Pakistan, il cooperante palermitano Giovanni Lo Porto viene ucciso per errore da un drone statunitense. Il fatto, accertato qualche mese dopo, ha rappresentato per molti italiani la prima occasione per sentir parlare di droni armati.
Se tutti infatti conoscono i velivoli (anche piccoli) senza pilota, forse molti non sanno che se dotati di missili si tratta di armi a tutti gli effetti, ma che non richiedendo la presenza delle forze operative terrestri nella zona di conflitto per essere utilizzate; ed essendo a basso costo politico, visto che non espongono ad alcun rischio il personale militare, possono fare sì che la guerra sia la prima e unica soluzione ad essere considerata.
Il caso di Giovanni Lo Porto resta uno dei pochi in cui il governo statunitense abbia riconosciuto le proprie responsabilità donando una somma di denaro alla famiglia.
L’organizzazione britannica Repreive, impegnata nella difesa dei diritti umani, ritiene siano oltre 4.000 le vittime dei droni statunitensi e, tra queste, molte sono civili. Stando a un decreto presidenziale firmato da Barack Obama nel luglio del 2016, nel corso di 473 attacchi contro obiettivi del terrorismo internazionale, in Paesi con cui gli Stati Uniti non sono formalmente in guerra, tra il 2009 e il 2015 i droni armati hanno ucciso tra i 64 e i 116 civili.
Il Bureau of Investigative Journalism stima invece che le vittime civili siano tra 380 e 801, mentre la New America Foundation parla di 219 morti e il Long War Journal di 212. Al di là delle cifre si potrebbe dire che «un drone uccide due volte».
È l’ingegnere yemenita Faisal bin Ali Jaber, che in un attacco americano ha perso due membri della sua famiglia, a ricordarlo spiegando come al dolore per la perdita di un congiunto si unisca la vergogna di fronte alla comunità locale per essere stati ingiustamente associati a dei terroristi. Il mancato riconoscimento dell’errore dà luogo spesso a situazioni di questo tipo. I droni armati americani decollano anche dalla base Usa di Sigonella. Lo scorso 22 febbraio 2016 il Wall Street Journal ha rivelato il consenso del nostro Governo a questo tipo di attività militare.
I droni che partono dalla Sicilia sono impiegati in missioni militari contro le milizie affiliate allo Stato Islamico in Libia e Nord Africa. Un aspetto da considerare è che il governo italiano, acconsentendo all’uso dei droni di Sigonella, si troverebbe a condividere con gli Stati Uniti eventuali responsabilità in caso di contenziosi internazionali legati a missioni condotte a partire dal nostro territorio. Contenziosi simili sono già stati avviati contro il governo tedesco nel 2015, su iniziativa di uno studio legale tedesco sostenuto dall’Open Society Justice Initative, a seguito dell’uccisione di un pastore Somalo. Un anno prima, l’Organizzazione tedesca European Center for Consitutional Rights, insieme a Reprieve, ha avviato un’azione legale in difesa di una famiglia Yemenita, contestando l’uso della base Americana di Ramstein, nel Sud-Ovest della Germania, per facilitare gli attacchi con i droni armati. I processi sono tutt’ora in corso.
Leggendo il saggio di Diego Mauri dell’Università di Palermo Università Cattolica di Milano, ‘Droni a Sigonella: quale valore ha (e quale impatto produrrà) l’accordo italo-americano?‘ è lecito domandarsi se l’Italia sia inserita, in forza degli accordi che regolano l’uso della base a Sigonella, nel sistema decisionale statunitense circa la scelta degli obiettivi da colpire e le modalità con cui le operazioni saranno portate a termine. Gli Stati Uniti non sono l’unico governo al mondo ad utilizzare droni armati.
Nel corso degli ultimi anni stiamo assistendo a una vera e propria proliferazione in tal senso. Ad esempio, dal 2001 l’Italia possiede dei droni americani non-armati per attività di sorveglianza (Predator e Reaper MQ-9 americani) e nel 2011 ha richiesto l’autorizzazione all’acquisto di munizionamento per tali velivoli.
Nel novembre del 2015 il Congresso Americano ha dato il via libera per l’esportazione di tali armi per un valore di circa 129,6 milioni dollari. L’armamento effettivo si dovrebbe completare nel giro di un paio di anni da oggi. Va ricordato inoltre il coinvolgimento dell’industria militare italiana nello sviluppo di un drone armato europeo (di cosiddetta classe ‘Male’, insieme a Francia, Germania e Spagna) e l’accordo governativo di inter-acquisto di armi sottoscritto con Israele dal Governo Monti. In tale accordo circa 1 miliardo di sistemi d’arma italiani (principalmente i caccia militari ed addestratori M-346) venivano venduti in cambio di una similare cifra di armamenti di produzione israeliana, in particolare droni e tecnologia ad essi legata. In uno scenario di questo tipo, e per evitare in futuro di scivolare in violazioni delle norme internazionali, è importante che l’Italia incominci a regolare le modalità di utilizzo delle basi sul proprio territorio e adottare una dottrina militare che definisca le regole d’uso dei propri droni armati. L’illusione che si tratti di strumenti di alta precisione ci restituisce un’immagine distorta della guerra.
Forse i droni rendono possibile la «guerra globale al terrorismo» (qualunque cosa questo significhi) in qualsiasi momento e ovunque, ma certamente non risparmiano vittime civili e innocenti come Giovanni Lo Porto e tanti altri in Yemen, Somalia, Pakistan, Syria, Iraq, Afghanistan.
* Senior Policy Analyst, Open Society European Policy Institute a Bruxelles
** Coordinatore Rete italiana per il disarmo