Ecco di cosa abbiamo discusso durante il partecipato evento lecchese
I recenti fatti di Parigi – e quelli ancor più recenti di Istanbul – hanno insinuato nelle persone un forte senso di vulnerabilità e di insicurezza, oltre ad aver favorito semplificazioni a danno della necessaria analisi critica dell’accaduto, che vanno tutte nella direzione della guerra come strumento di difesa. Qui Lecco Libera ha invece promosso ieri sera in Sala Ticozzi un dibattito pubblico dal titolo “Armi, conflitti, terrorismo” a cui è intervenuto Francesco Vignarca, coordinatore della rete italiana per il disarmo, il quale pur premettendo che il proprio approccio “è quello della non violenza nella gestione dei conflitti”, spiega però che per farlo, “al di là della presa di posizione etica, bisogna ragionare e capire, farsi carico della complessità della situazione, senza farsi trascinare dalla tentazione di spegnere il cervello e agire d’istinto, che è sempre il modo sbagliato di rispondere”.
L’analisi proposta questa sera parte dunque dal problema principale che mette il mondo in allerta: il terrorismo. “È bene innanzi tutto sapere che l’85% delle vittime del terrorismo non appartengono ai paesi occidentali ma al Pakistan, l’Iraq, la Nigeria, la Siria e l’Afghanistan. Questo dato già di per sé dovrebbe parzialmente attenuare l’allarmismo oggi dilagante, anche se è ovvio che quando ad essere colpito è un paese geograficamente e culturalmente vicino siamo più impressionati. Però una volta passata ‘l’emozione’ deve subentrare la comprensione, che deve necessariamente partire da sé stessi: perché è su noi stessi che possiamo cominciare ad incidere”. Dopo aver inquadrato i termini del problema è fondamentale delineare il contesto entro il quale esso si sviluppa e approfondire le responsabilità dei paesi – tra cui l’Italia – che commerciano armi.
L’ospite Vignarca illustra alcuni dati: “La spesa mondiale militare nel 2014 è stata di 1776 miliardi di dollari, ovvero il 2,3% PIL mondiale, nel 2001 era la metà: nessun altra voce di spesa cresce ed è mai cresciuta così. Ciò vuol dire che la tendenza dopo l’attacco dell’undici settembre è stata quella di armarsi. E dopo Parigi, la prima iniziativa è stata quella di togliere dal patto di stabilità le spese per la difesa”.
Davanti a un attacco violento e armato i paesi occidentali sembrano rispondere in maniera quasi incondizionata con le armi, ma come hanno dimostrato gli interventi in Medioriente successivi alle Torri Gemelle, non sempre esse si rilevano una soluzione efficace, basta pensare che oggi in Afghanistan i territori conquistati dai talebani sono di più che nel 2001. Questo perché “la guerra è cambiata – prosegue il coordinatore della rete per il disarmo – ed è cambiata perché è cambiata l’economia: i soggetti non sono più gli Stati ma i gruppi di interesse. Pensiamo ad esempio alla bomba nucleare: è l’unica arma di distruzione di massa non messa al bando ed è la classica ‘arma statale’ che funziona come deterrente: due paesi in contrasto la possiedono ed entrambi sanno di non poterla per questo usare contro il rivale. Ma se i conflitti non sono statali, perde di senso.
Infatti, se all’inizio del decennio gli Stati Uniti detenevano il 50% della spesa militare mondiale, oggi essa è scesa attorno al 40% a seguito di diverse scelte strategiche e politiche; come pure è diminuita – per questioni però di budget – la spesa in Europa. Aumentano invece in Europa orientale, Medioriente e Nord Africa, sia per rafforzarsi, sia perché c’è una spinta commerciale a vendere le armi da parte delle aziende produttrici, secondo logiche del tutto nuove. Se negli anni ‘90 l’industria delle armi vendeva al proprio governo o ai paesi alleati, adesso le aziende fanno pressione sulla politica perché essa faccia loro da sponsor. I principali produttori di armi rimangono i paesi occidentale, a cambiare sono gli acquirenti, e l’Italia con Finmeccanica è al nono posto al mondo per la vendita di armamenti. Se il nuovo corso di Finmeccanica si è ripulito dagli scandali e dalla corruzione, che finiva per nuocerne all’immagine, a non essere cambiato è l’impatto politico. Nell’ultimo quinquennio le autorizzazioni italiane all’esportazioni di armi in paesi non appartenenti all’Unione Europea né alla Nato sono salite al 62,9%, e tra i primi 20 destinatari sono ben 7 le cosiddette ‘democrazie incomplete’ secondo la classifica del Democracy Index dell’Economist di cui cinque sono regimi autoritari e due sono ‘ibridi’: Algeria e Arabia Saudita, ma anche Kuwait, Emirati Arabi, Nigeria, India, Pakistan. Ogni anno vendiamo armi per circa 3 miliardi di euro e negli ultimi 25 anni il totale ha superato i 53 miliardi di euro, questo in palese violazione della legge 185/90 che vieta chiaramente la vendita di armi verso paesi in conflitto e che violano i diritti dell’uomo.
L’Italia vende armi a paesi in cui le gente si ammazza e le cui tensioni poi arrivano fino a noi. All’Italia conviene guadagnare da questo aspetto quando poi le conseguenze sono negative, violente e non gestibili? Non è una domanda retorica: la maggior parte delle armi dell’Isis deriva dalla conquista dei depositi militari iracheni. Quando i paesi occidentali hanno venduto armi all’instabile governo iracheno, era già chiaro che in quei luoghi la dispersione degli armamenti era massima e una volta che messa un’arma in circolo non ci si può lavarsene le mani. Gli Usa hanno venduto mezzo miliardi di dollari in armi allo Yemen e ora non si sa dove sono; a Gheddafi, dieci mesi prima che venisse attaccato e deposto dall’occidente, sono state mandate 11.500 tra pistole e fucili dai paesi che poi lo hanno ammazzato. In Yemen c’è una catastrofe umanitaria con 21 milioni di persone che necessitano di aiuti umanitari e più di 6mila morti, dovuti al conflitto con l’Arabia Saudita che quest’ultima ha avanzato senza legittimazione ONU. All’inizio di novembre 2015, quando questa guerra era già scoppiata, dall’aeroporto civile di Cagliari Elmas è partito più d’un cargo carico di bombe MK-80, vendute all’Arabia Saudita.
Tutti questi dati per dimostrare non certo che sia colpa delle armi se la gente si ammazza, ma che esse moltiplicano la possibilità di farsi male, soprattutto quando a governare questo commercio non sono delle ponderate scelte di politica estera ma la logica del commercio, il tutto condito da un enorme problema di trasparenza: è stato reso impossibile conoscere le singole operazioni svolte da istituti di credito ed è venuta meno l’attività di controllo del Parlamento, il quale riceve la relazione prevista dalla legge che però è stesa in modo tale da essere incomprensibile. Per concludere possiamo affermare alla luce di quanto detto che la sicurezza e la difesa non derivano dalle armi. È necessario cominciare ad intraprendere una strada alternativa, partire da subito, sapendo che la soluzione comunque non è immediata”.
(Manuela Valsecchi)
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Nella serata del 13 gennaio si è tenuta a Lecco una serata organizzata da Qui Lecco Libera riguardante la tematica “Armi, conflitto e terrorismo” con la presenza di Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo. La conferenza, presentata da Duccio Facchini di Qui Lecco Libera, si è tenuta davanti a una folta platea di un centinaio di persone. Ottima dunque la risposta della città a un argomento importante come il commercio mondiale delle armi e i suoi effetti più o meno diretti, come appunto l’avanzata di Daesh nel Medio Oriente.
La serata è cominciata con la presentazione di alcuni dati sul commercio delle armi nel mondo, come ad esempio i 1776 miliardi di dollari spesi nel globo relativamente a questo commercio (dati 2014); si è poi parlato del ruolo dell’Italia in questo scacchiere, che origina il 45% della corruzione globale. L’Italia è una delle principali esportatrici mondiali di armi grazie soprattutto al colosso Finmeccanica, 9° azienda nel mondo per vendite di armi. La più grande azienda del mondo in questo settore è la Lockheed Martin, seguita da Boeing e da BAE Systems. Al settimo posto di questa speciale e triste classifica troviamo un’altra azienda ben conosciuta, ovvero l’Airbus.
Sono poi stati presentati dei dati relativi alla creazione di posti di lavoro nel settore degli armamenti: mentre il settore delle armi produce circa 8 posti di lavoro per ogni milione investito, l’educazione pubblica arriva a produrne 15, e anche le energie rinnovabili fanno meglio con circa 11 posti di lavoro. Questo è servito a dimostrare la falsità delle asserzioni secondo cui la produzione di armi sia necessaria per la creazione di posti di lavoro.
Capitolo molto approfondito è stato quello della relazione annuale da presentare al Parlamento su questo argomento. Le relazioni sono state definite spesso illeggibili, in quanto negli ultimi anni sono stati presentati documenti PDF da più di 1500 pagine non ricercabili. Vista la tecnologia odierna, è difficile pensare che qualcosa del genere non venga fatto apposta per rendere più difficoltosa la ricerca e l’elaborazione dei dati del documento da parte degli interessati. Questa relazione, obbligatoria secondo la legge 185/90, dovrebbe assicurare la maggior trasparenza possibile in questo settore così delicato.
Vignarca ha poi parlato ampiamente della già citata legge 185/90, molto importante perché sancisce il divieto di fornire armi a Paesi in stato di conflitto armato. Le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita, che sta bombardando lo Yemen dal marzo 2015, continuano però senza problemi, in barba a una legge statale.
Per chiudere la serata, si è toccato il tema armi e terrorismo. Analizzando gli ultimi quindici anni, in cui il terrorismo è stato attaccato a suon di bombe, si può definire fallimentare questo tipo di approccio. I talebani, in Afghanistan, controllano più territorio rispetto al 2001, mentre Daesh ricava mezzo miliardo di dollari all’anno dalla vendita di petrolio, secondo le parole di Vignarca.
Nel dibattito seguito alla presentazione, alcuni cittadini hanno chiesto di far luce sulle modalità pratiche di sostegno alla Rete Italiana per il Disarmo e alle sue iniziative. Tra queste ultime si annoverano la campagna “Un’altra difesa è possibile” per la creazione di un Dipartimento per la Difesa Civile non Armata e non Violenta. Le firme raccolte sono state 54.000, sufficienti dunque per portare il disegno di legge in Parlamento. Partiranno intanto nel 2016 i primi bandi di servizio civile in questo ambito, promossi dalla stessa Rete Italiana per il Disarmo.
Vignarca ha infine sollecitato i cittadini presenti a restare informati sull’argomento e a diffondere quante più informazioni possibili sul tema. Noi del blog Cent’anni indietro recepiamo volentieri questo appello a partire dalla pubblicazione di questo breve articolo riassuntivo.
(Marco Conti)