di Giampaolo Cadalanu
Prima di lanciare un intervento militare in Libia, bisogna capire per quali obiettivi. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, è assolutamente contrario alle ipotesi di una missione a guida italiana, quanto meno in questa fase della guerra civile sulla sponda del Mediterraneo.
Lei non condivide l’idea che sia necessaria un’operazione militare per evitare che l’emergenza in Libia coinvolga direttamente l’Italia. Perché?
«Per motivi non ideologici. Anche mettendo da parte la cultura paci- fista, basta l’esperienza recente per capire che un intervento armato, fatto attraverso i bombardamenti, non è in grado di risolvere nulla. È la Storia che ce lo insegna: prima di lanciare i cacciabombardieri dobbiamo capire chi devono colpire, chi devono difendere, insomma quale progetto di Libia futura abbiamo in mente. E finora questo non è chiaro a nessuno. In queste condizioni lo strumento militare è inutile, senza obiettivi chiari serve solo a ripulirci la coscienza, a far finta che stiamo facendo qualcosa».
Ma quale può essere l’alternativa?
«Bisogna far ripartire il dialogo. Nel Paese si sta diffondendo un’anarchia generale, ma i libici non la vogliono: bisogna sostenere la società civile, offrire la mediazione, con la protezione della comunità internazionale e la partecipazione delle comunità locali. Attenzione: non mi illudo che sia una strada facile. È un percorso lungo, ma è l’unico che si può mettere in pratica. Fra l’altro, le difficoltà nascono anche dal fatto che le bande jihadiste sono ben fornite di armi, soprattutto italiane. Abbiamo scoperto che un arsenale di 11.500 fra pistole e fucili, considerate armi civili, sono finite in mano alla guardia di Gheddafi e ora ai jihadisti».
C’è chi sostiene che il possibile intervento armato potrebbe consistere in un uso massiccio dell’aviazione, affiancato da un forte blocco navale, senza truppe sul terreno e dunque con ridotto rischio di perdite. Che ne pensa?
«Quale che sia il dispiegamento tattico, bisogna sempre sapere per che cosa serve. E sono scettico sull’uso dell’aviazione: quando si parla di bande di cento, tutt’al più trecento miliziani, che colpiscono e fuggono, che cosa si può bombardare? Se i jihadisti sequestrano civili e poi si rifugiano nel deserto, che si fa? A questo punto, un’ipotesi più sensata è quella di schierare 50-60 mila soldati, occupare militarmente il Paese. Ma i costi sarebbero enormi e il rischio di perdite è altissimo. Secondo me avrebbe senso solo lo schieramento di una forza per mantenere la pace, dopo che questa è stata raggiunta con negoziati».
Si è parlato anche di un’immigrazione gestita dai jihadisti, contro la quale il blocco navale potrebbe essere efficace. Che ne pensa?
«Sappiamo che i jihadisti per finanziarsi usano anche il traffico di esseri umani, ma fermare i barconi con le navi da guerra, anche arrestando gli scafisti, serve a poco. Sono come piccoli spacciatori: se vengono arrestati il traffico non si ferma, i disperati troveranno sempre una barca. Vanno fermati i boss, i mandanti di questo traffico».
Che cosa propone per bloccare i finanziamenti alle bande di integralisti?
«Una mossa efficace ci sarebbe: l’Italia – ovviamente in accordo con i partner europei e gli alleati – potrebbe rinunciare provvisoriamente al gas libico. Al contrario del petrolio, che può passare attraverso un trasporto non perfetto, il gas può essere esportato solo attraverso i gasdotti. I jihadisti lo sanno bene, se non hanno attaccato le stazioni del gasdotto è solo perché contano di incassarne i proventi».
Ma rifornendosi sul mercato libero l’Italia pagherebbe il gas molto di più.
«Dev’essere una decisione concordata con altri Paesi, per condividerne i costi. E comunque, costerà sempre molto meno di un intervento militare».