Rete Disarmo: “Attenzione alla disinformazione che porta all’isteria della guerra. L’Italia dica ai suoi alleati ‘Ora decido io’. La diplomazia metta alle strette i Paesi che sostengono i gruppi armati”
di Francesca Morandi – #Noallaguerra
“Nessun bombardamento della Libia ma subito il blocco delle fonti di finanziamento dei terroristi e della vendita di munizioni, perché se le armi non vengono ricaricate diventano offensive quanto bastoni. Bisogna inoltre rimettere al centro dell’azione internazionale il popolo libico, composto da tre milioni di persone che non sono l’Isis ma individui come noi, che vogliono vivere una vita normale”. Francesco Vignarca, coordinatore nazionale di Rete Italiana per il Disarmo, offre soluzioni concrete e percorribili, ma prima di tutto mette in chiaro una cosa: “L’opinione pubblica deve capire che ci sono strade alternative all’intervento militare e bisogna stare attenti a non cadere in un’isteria collettiva, fomentata dalla disinformazione, che rischia di portarci nuovamente a guerre che provocano solo morte e devastazione”.
“Di fronte al caos libico oggi l’Italia ha l’occasione di condurre una Politica Estera autonoma rispetto ai suoi alleati, che nel 2011 ci trascinarono in guerra in Libia – continua Vignarca, uno dei massimi esperti di disarmo in Italia e autore di libri come “Mercenari S.p.a.” e “Il caro armato” -. Il nostro Paese deve mostrare coerenza tra l’azione politica e i principi di civiltà scritti nella nostra Costituzione, che all’art. 11 ripudia la guerra. C’è bisogno di scelte di rottura rispetto al passato”.
– Qual è il primo passo?
“L’Italia e la comunità internazionale devono urgentemente adoperarsi per fermare l’arrivo di munizioni in Libia. Purtroppo armamenti di ogni tipo sono già affluiti, in maniera occulta, nel Paese nordafricano quando alcuni Stati occidentali e i loro alleati mediorientali volevano far cadere il regime di Gheddafi, ma le armi possono smettere di funzionare se non sono ricaricate. Tra il 2009 e il 2011 dall’Italia, dalla sede della Beretta-Benelli di Brescia, sono partiti 11.500 armamenti per la Libia, fatti passare per “armi ad uso civile” (come pistole, revolver e fucili da caccia “ad uso sportivo”) che in base alla legge 110/75 possono essere esportate senza il via libera del Governo ma solo con il “Sì” del Prefetto, al contrario “dei sistemi d’arma a scopo militare”, regolati dalla legge 185/90, che devono avere l’autorizzazione dell’Esecutivo. Era presumibile che le armi italiane alla Libia non sarebbero state usate per il “tiro a segno” o la caccia. Oggi l’Italia e l’Europa devono inoltre opporsi alla rimozione dell’embargo di armi in Libia, come chiesto da Egitto e Giordania che vogliono poter armare le forze anti-Isis. Più affluiscono armi e munizioni nel Paese, più aumenta la possibilità che la Libia sprofondi in un conflitto dal quale il Califfato islamico potrebbe uscire vincitore.
L’Italia deve poi bloccare le fonti di finanziamento di terroristi, bande armate e capi-clan che usano i proventi di gas e petrolio per comprare armi e farsi la guerra. Questo significherebbe interrompere un business anche per noi, perché l’Eni estrae 300mila barili di petrolio al giorno in Libia, dalla quale importiamo anche l’8% del nostro gas, ma dobbiamo essere pronti a sacrifici per la pacificazione”.
L’Italia deve poi bloccare le fonti di finanziamento di terroristi, bande armate e capi-clan che usano i proventi di gas e petrolio per comprare armi e farsi la guerra. Questo significherebbe interrompere un business anche per noi, perché l’Eni estrae 300mila barili di petrolio al giorno in Libia, dalla quale importiamo anche l’8% del nostro gas, ma dobbiamo essere pronti a sacrifici per la pacificazione”.
– Per bloccare soldi e armi agli islamisti come si può fare pressione su Paesi del calibro di Qatar, Arabia Saudita e Turchia?
“Innanzitutto dicendo la verità. Attraverso i canali della diplomazia l’Italia deve chiedere a questi Paesi un’assunzione di responsabilità di fronte all’evidenza. Ci vuole un cambio di passo totale. Basta pensare che negli ultimi due anni l’Italia ha venduto all’Arabia Saudita armi per un valore di 500milioni all’anno, facendo finta di niente, tra le altre cose, rispetto al fatto che in Arabia le donne non hanno neppure il diritto di guidare la macchina. Dobbiamo smetterla di usare i principi della democrazia a seconda della nostra convenienza. Anche i rapporti commerciali possono essere messi in discussione, ma iniziamo con un dialogo schietto. Bisogna anche muoversi presso le Nazioni Unite, con la cooperazione della Lega araba e dell’Unione degli Stati africani, affinché i Paesi che sostengono, più o meno occultamente, le guerre in corso siano fermati. Sempre sotto l’egida dell’Onu, la comunità internazionale deve poi farsi garante di accordi di pace in Libia, dove ogni sforzo deve essere concentrato nella ricostruzione dell’assetto statuale libico, coinvolgendo i rappresentanti delle comunità locali e della società civile”.
– Gli interventisti potrebbero replicare: “Ma con chi dialoghiamo se la Libia è composta da una miriade di tribù, gruppi armati in lotta tra loro e i tagliagole dell’Isis avanzano?
“Rispondo loro: ma chi bombardiamo? Quali sono gli obiettivi? Per conquistare chi e che cosa? In Libia la situazione non è chiara, regna il caos, e c’è chi vuole sganciare bombe senza sapere dove e contro chi! Noi pensiamo piuttosto che l’Italia debba assumere la leadership di un’azione diplomatica in Libia per conto dell’Onu e dell’Unione europea. Dobbiamo sostenere il protagonismo della società civile e delle comunità religiose nella costruzione di un processo di pace in Libia, tutelando i difensori dei diritti umani e gli operatori di pace locali che più si espongono in questo momento. Solo così la popolazione libica non sarà tentata di sostenere i “miliziani neri”.
– Il governo italiano sarà in grado di mettere in campo una Politica Estera indipendente?
“L’Italia deve avere la forza di dire ai propri alleati: ‘Sulla Libia decido io’. L’azione italiana andrebbe impostata sulla base di interessi precisi che non sono quelli energetici, finanziari, commerciali, né quelli della Nato oppure di quegli stessi alleati, Francia e Gran Bretagna in primis, che nel 2011 ci hanno trascinato in guerra contro la Libia, per i loro fini. Oggi dobbiamo fare gli interessi della popolazione libica e della popolazione italiana, che sono connessi. Nel Paese nordafricano l’Isis, formatosi attraverso l’adesione al Califfato di milizie jihadiste locali, ammonterebbe oggi a circa 2.000 persone, ma il popolo libico è composto da tre milioni di persone e il loro interesse, come il nostro, è arrivare alla pacificazione del Paese. Bisogna puntare sulla società civile, seppur ora terrorizzata, e costruire, non sulla carta ma nella realtà, una politica fondata sul rispetto dei diritti umani, dell’autodeterminazione dei popoli e del diritto internazionale”.
– Gli interventisti potrebbero replicare: la diplomazia richiede troppo tempo e i terroristi minacciano Roma. Cosa risponde?
“Interventi militari sono stati condotti in Somalia, Iraq, Afghanistan, Mali, Libia,… a che cosa hanno portato? L’intera aerea è una polveriera, le bombe hanno creato terreno fertile ai terroristi, mentre le popolazioni sono allo stremo. Spesso avviare bombardamenti è anche un modo da parte dei governi per “accontentare” l’opinione pubblica, per fare vedere che la politica si muove, “fa qualcosa”. I raid magari segnano uno stop all’avanzata di gruppi armati, ma poi gli effetti sono disastrosi. Inoltre gli stessi interventi militari richiedono tempo, basta pensare che lo scorso agosto il nostro governo ha annunciato l’invio di armi ai curdi per contrastare i miliziani dell’Isis in Iraq, ma la gente non sa che quelle armi sono state consegnate ai curdi solo due giorni fa ! E non serviranno a nulla…”.
– Possibile che tanti nostri esponenti di governo rivolgano parole ossequiose verso Papa Francesco, che qualche giorno fa ha condannato nuovamente gli “imprenditori di morte”, e poi dicano alla stampa che l’Italia è pronta a combattere e che l’acquisto dei 90 cacciabombardieri F-35 è concluso?
“Non mi stupisco della politica… Sugli F-35 credo che sia in atto una campagna mediatica per fermare la mobilitazione di protesta contro l’acquisto di questi arei militari. Lo scopo è far passare il concetto che l’acquisto è stato già concluso e quindi non c’è più nulla per cui protestare. Ma i cittadini non devono cadere in questa trappola e continuare a esprimere il proprio dissenso”.