Un giro d’affari da 7 miliardi l’anno. Le cose potrebbero cambiare ora che entra in vigore un nuovo trattato Onu.
Paradossi. Una lingua di terra lunga solo 50 km produce il 60% delle armi leggere e sportive fabbricate nell’intera Unione Europea. La Val Trompia è una piccola valle della provincia bresciana, dodici comuni in tutto, immersa nel verde, dove si costruiscono armi dalla notte dei tempi. Oggi il “distretto” non conosce crisi: ci sono 140 aziende che esportano in tutto il mondo e un giro d’affari di circa 7 miliardi l’anno, che dà lavoro a 5 mila persone. Merito dell’alta professionalità degli armaioli bresciani – e, aggiungono i critici, di una legge sull’export molto ambigua.
Qui ha sede la Beretta, multinazionale a conduzione familiare sin da quando nel 1526 la fondò Bartolomeo Beretta, che oggi ha partecipazioni dirette e indirette in 26 aziende e controlla i marchi Benelli, Franchi, Sako, Burris e Stoeger. Accanto, una serie di piccole realtà di alto prestigio, capaci di attrarre in queste valli vip di vario genere: da teste coronate come l’ex re di Spagna Juan Carlos fino ad artisti come Eric Clapton. Tutti desiderosi di comprare le armi bresciane. Da qui provengono la Beretta Serie 81, usata da Al Pacino in Scarface, o la mitica Beretta 92, che ha sostituito la Colt 1911 nelle fondine dell’esercito americano. Poi c’è lo sport: alle olimpiadi di Atene del 2004, 15 medaglie su 15 sono state vinte con armi italiane, en plein replicato a Pechino 2008 e Londra 2012. Dei 133 atleti provenienti da 59 Paesi di tutto il mondo, il 90% ha scelto fucili made in Italy, e l’80% ha sparato munizioni italiane.
Pistole e fucili italiani piacciono, e tanto. «Per quanto riguarda le sole armi comuni, cioè fucili, carabine e pistole, progettate ed esportate per usi civili, secondo il database del commercio internazionale delle Nazioni Unite (Comtrade), con quasi 3,2 miliardi di dollari l’Italia è il principale esportatore mondiale nel decennio 2003-2012», fa notare Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere (Opal) di Brescia.
Il nostro Paese supera di gran lunga giganti economici come la Germania (2,4 miliardi) e gli Usa (2,1), e il successo non accenna a scemare. «L’export è in tendenziale crescita», continua Beretta, «secondo i dati forniti dall’Istat nel 2013 ha raggiunto la cifra record di 390 milioni di euro: per la maggior parte si tratta di fucili e carabine (oltre il 60%) e di pistole e revolver (il 20%), ma una porzione sempre più consistente è costituita da singole parti di queste armi. La quasi totalità è prodotta in Val Trompia».
Ma dove vanno a finire? «Limitandoci alla provincia di Brescia i maggiori acquirenti sono gli Stati Uniti (36,5%) e i Paesi dell’Unione europea (25,4%), tra cui soprattutto Francia, Regno Unito e Germania». Prosegue Beretta: «Nonostante il recente calo, invece, la Turchia rimane il secondo acquirente internazionale: nel 2013 ne ha importate per quasi 24 milioni di euro di euro, e in forte crescita sono le esportazioni verso la Russia (10 milioni)». L’export di armi italiane ha registrato un incremento negli Stati Uniti: l’annuncio da parte dell’amministrazione Obama di possibili restrizioni legislative a fronte delle stragi in alcune scuole ha incentivato la domanda interna. Ma non va dimenticato che, seppur con valori ancora limitati, è in crescita anche l’esportazione di armi comuni verso i Paesi del Medio Oriente (con un incremento del 23% tra il 2012 e il 2013) e dell’Africa (+36%)».
Le armi italiane non conoscono confini. Il problema però è che spesso non conoscono neanche le restrizioni dovute a violazioni dei diritti umani: merito di un doppio standard legislativo fra armi leggere e pesanti. Le cosiddette armi pesanti sono soggette alla legge 185 del 1990, nata sull’onda emotiva degli orrori della guerra Iran-Iraq, che prevede un rigido controllo sull’export. L’autorizzazione può essere concessa solo dai ministri degli Esteri e della Difesa, ogni anno viene presentata una relazione al parlamento e sono previsti rigidi controlli sulla situazione interna dei Paesi destinatari. In caso di guerra, embargo o violazioni dei diritti umani scatta il divieto di esportazione, che vale anche per i Paesi limitrofi. Per le armi ad uso civile, invece, la normativa italiana è più flessibile: secondo la legge 110 del 1975 basta l’autorizzazione del questore e la garanzia che non siano destinate alle forze armate (per le quali è richiesta l’autorizzazione del ministero degli Esteri), e non abbiano caratteristiche «per l’impiego bellico». Basta poco ed è fatta.
E così armi destinate a tutt’altro uso finiscono in guerra o in mano ai regimi. «Mentre gli armamenti pesanti devono sottostare alla legge italiana sull’export militare, per quelle leggere si tende a usare l’escamotage di segnalarle come armi di uso difensivo o sportive» accusa Francesco Vignarca, coordinatore nazionale di Rete disarmo e autore per Chiarelettere del libro “Armi, un affare di Stato”, scritto con Duccio Facchini e Michele Sasso. «Io stesso ho scoperto un caso risalente al biennio 2009-2011: 11.500 pistole e fucili che il gruppo Beretta ha venduto ai sistemi di sicurezza di Gheddafi, dicendo che erano ad uso civile. Di questi 11.500, 2.500 sono shotgun Benelli, sviluppati per i marines Usa. Non mi sembra si possa parlare di armi sportive».
E non è l’unico caso, come racconta Giorgio Beretta: «Nel giugno del 2011 sono state esportate dalla provincia di Brescia alla Bielorussia armi per oltre 1 milione di euro, proprio pochi giorni prima che l’Unione europea decretasse un embargo a causa delle violazioni dei diritti umani e della repressione messa in atto dal regime del presidente Lukashenko. Nel 2013 sono state inviate dalla provincia di Brescia in Libano “armi comuni” per oltre 2 milioni di euro, e questo nonostante sia vigente un embargo».
Le cose potrebbero cambiare già a partire dal giorno di Natale, quando enterà in vigore l’Att (Arms Trade Treaty), il trattato Onu ratificato da 52 Paesi fra cui l’Italia. Nelle intenzioni dei firmatari, la convenzione internazionale vieta il trasferimento di armi che potrebbero essere usate per crimini di guerra e contro l’umanità. Per Vignarca è un passo importante, anche se non mancano i dubbi: «È la prima volta nella storia in cui una norma regola il commercio di armamenti. Fino a oggi le banane avevano una normativa internazionale più stringente di quella prevista per le armi leggere. Però sono fuori dal trattato le munizioni, che invece sono fondamentali. E non è chiaro chi andrà a chiedere qualcosa agli Stati che violeranno le regole. Ma almeno si inizia fornire un quadro preciso, si comincia a dire che non puoi vendere armamenti in luoghi dove ci sono violazioni di diritti umani». Il nostro Paese ha sottoscritto il trattato, ma proprio su pressione italiana è stata inserita una clausola che esclude le «armi usate per attività ricreative, culturali, storiche e sportive». Quelle della Val Trompia.