Allora sembrerebbe davvero possibile. La richiesta, già avanzata dalla Rete Italiana per il Disarmo all’immediato scoccare degli attacchi su Gaza, di un embargo e uno stop delle forniture militari verso Israele si può davvero fare. Così ci dicono le cronache di queste ora e così ci sottolinea la decisione presa dal governo spagnolo. Madrid ha infatti deciso di “bloccare temporaneamente” le vendite di attrezzature militari a Israele, in conseguenza del conflitto aperto di Gaza, con una decisione presa lo scorso Giovedì in una riunione della commissione interministeriale incaricata del commercio con l’estero Difesa e Dual-Use (JIMDDU) alla presenza, tra gli altri, di funzionari della Presidenza del Governo e dei Ministeri dell’Economia, degli Esteri, della Difesa e delle Finanze.
Già qualche giorno fa si era mosso anche il governo britannico di Cameron, facendo partire una revisione di tutte le licenze di esportazione armata che l’esecutivo di Sua Maestà Britannica ha negli ultimi tempi concesso verso il governo Netanyahu. Un portavoce governativo ha esplicitamente dichiarato che “Chiaramente l’attuale situazione è cambiata rispetto al momento di concessione di alcune licenze, e le stiamo dunque rivalutando alla luce della condizione attuale”.
In tutto questo dobbiamo ricordare che l’Europa nel suo complesso è il secondo principale fornitore di armamenti e sistemi militari a Israele, preceduti solo dagli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni i paesi dell’Unione hanno concesso licenze per l’esportazione di armi e sistemi militari verso Tel Aviv per un valore complessivo di oltre 2 miliardi di euro, di cui oltre 600 milioni di euro nel solo 2012. Per questo motivo la richiesta di embargo avanzata inizialmente da Rete Disarmo è stata estesa e poi fatta propria dal coordinamento europeo ENAAT che raggruppa le principali reti disarmiste del continente. Nel caso particolare italiano la preoccupazione si rivolge anche alle previste, e non ancora cancellate nonostante le dichiarazioni della Difesa, esercitazioni aeree congiunte con l’Air Force Israeliane: prove di bombardamento in Sardegna.
L’evidenza dei dati proposti dimostra l’importanza di chiedere ai Governi dell’Unione una presa di posizione forte, considerando anche come dal 2002 non risultino (secondo i dati ufficiali) esportazione di armi verso l’Autorità Palestinese. Stiamo dunque parlando di una questione di responsabilità: occorre partire da scelte davvero concrete nel cercare di disinnescare l’attuale livello di conflitto, prima di passare ad un tentativo complesso di costruzione di una soluzione politica e di pace. Una responsabilità mostrata anche dalla sottosegretario agli Esteri britannica Sayeeda Warsi che ha deciso di rassegnare le proprie dimissioni dall’esecutivo per un profondo dissenso nei confronti della politica su Gaza. L’esponente dei Conservatori non ha fatto direttamente cenno alle scelte sull’export militare ma ha sottolineato come “L’approccio e il linguaggio usati durante la presente crisi di Gaza sono moralmente indifendibili, non rispecchiano gli interessi nazionali della Gran Bretagna e avranno una cattiva influenza sulla nostra reputazione sia all’estero che in casa”.
In questo contesto non è certamente positivo il silenzio del Governo italiano, che pure la scorsa settimana ha ricevuto nella persona del Viceministro agli Esteri Pistelli una delegazione delle reti pacifiste italiane, che hanno ovviamente segnalato nei particolari queste problematicità. Se da un lato può essere vero che la Presidenza di di turno UE in un certo senso “leghi le mani”, perché occorre seguire una posizione che sia equilibrata rispetto a tutti 28 membri dell’Unione, dall’altro potrebbe essere invece uno stimolo ad andare oltre una situazione di assoluta abulia. Non bastano infatti la gestione dell’emergenza e il tentativo di portare aiuti, come avvenuto proprio ieri contro un aereo partito da Roma, ma bisogna anche cercare di ragionare ad un livello più ampio e non solo legato all’ultimo passo che conduce ad una guerra.
Come già ricordato è una questione di responsabilità, e gli armamenti non possono essere considerati una qualunque merce da spingere solo per migliorare il commercio estero e il fatturato delle nostre aziende del settore. Le armi sono il motore delle guerre e dei conflitti e come tali ogni loro fase (dalla produzione all’uso finale) deve esser quantomeno attentamente monitorata con la massima attenzione. In questo senso la preoccupazione di Rete Disarmo è alta anche nei confronti della continua perdita di trasparenza nei dati relativi all’export militare italiano. La nostra legge 185/90, che regola il settore e nei principi rimane ancora tra le più avanzate a livello internazionale, perde tutta la propria portata innovativa se il Governo non fornisce al Parlamento dati semplici e chiari per poter discutere la politica estera sottesa alle vendite di armi. O forse questa trasparenza mancante serve a non poter entrare nel merito delle autorizzazioni rilasciate dalle nostre autorità governative? Ricordiamo infatti che il cuore fondante della legge, definito proprio all’articolo uno, impedisce una vendita di armamenti a Stati che siano in condizione di conflitto armato. Come ciò si concili con il fatto che il nostro Paese sia stato negli ultimi anni il principale fornitore militare di Israele è forse un mistero che qualcuno dovrebbe aiutarci a sciogliere.