Nel numero 18 di Rocca (la rivista quindicinale della Pro Civitate Christiana di Assisi) anche una mia risposta ad un lettore, che aveva inviato qualche considerazione ad un mio precedente articolo sugli F-35. Fa piacere ricevere attenzione e quindi una risposta era doverosa!
Per chi fosse interessato qui c’è l’immagine della rubrica di risposta ai lettori, più sotto il testo del mio pezzo originario (uscito sul numero 15 della rivista).
Grazie anche all’azione della campagna “Taglia le ali alle armi” (lanciata da Sbilanciamoci, Rete Disarmo e Tavola della Pace e attiva già dal 2009) in questi giorni la questione dei cacciabombardieri F-35 è tornata prepotentemente alla ribalta della scena politica e dell’attenzione dell’opinione pubblica. Difficile pensare il contrario visto che si sta parlando di un complesso programma di armamento, quindi di per sé elemento delicato di scelta pubblica, che ha visto il suo recente sviluppo rendersi via via più problematico sotto molti punti di vista. Primo fra tutti quello del suo costo sia a livello globale (stiamo parlando del programma militare più costose nella storia!) sia per quanto riguarda le casse dello Stato italiano; un aspetto che ovviamente suscita disagio, per non dire sdegno, considerando la faticosa congiuntura economica e sociale che stiamo attraversando. Ma, a parte i soldi, è anche dal punto di vista tecnico che il progetto Joint Strike Fighter (questo il nome ufficiale complessivo, mentre la sigla F-35 si riferisce al solo caccia che ne sarà il risultato) sta mostrando tutte le proprie debolezze. Sia in Italia che, soprattutto, negli Stati Uniti non possono essere più taciute le grosse lacune tecniche (sia software che hardware) e i consistenti ritardi nello sviluppo: recentemente il Pentagono ha fissato al 2015 – quindi con cinque anni di ritardo sulla tabella di marcia – la realizzazione del primo cacciabombardiere completo in tutte le sue funzioni. “Ready to combat”, come si dice nel gergo militare del Dipartimento della Difesa a stelle e strisce.
Anche solo da queste considerazioni preliminari risulta ampiamente giustificata la lente di ingrandimento sugli F-35 messa in campo in questi mesi e soprattutto in questi giorni, complice la discussione alla Camera dei Deputati di una mozione firmata da 160 parlamentari per la cancellazione del programma. Un’attenzione che le organizzazioni del disarmo e della Pace hanno voluto rilanciare stimolando un appello firmato inizialmente da uomini e donne appartenenti a pezzi importanti ella vita civica e culturale della nostra Italia. Esponenti dell’informazione e della cultura come Gad Lerner, Roberto Saviano e Riccardo Iacona e personalità del mondo della Pace come Cecilia Strada e Chiara Ingrao; personaggi di rilievo pubblico (e primi firmatari di mozioni contro gli F-35 nella scorsa legislatura) come Umberto Veronesi e Savino Pezzotta e due figure importanti del mondo dell’impegno cattolico come padre Alex Zanotelli e don Luigi Ciotti. Tutti insieme per chiedere al nostro Parlamento una scelta di responsabilità su questo tema particolare e su quello delle spese militari in generale.
“Spendere 14 miliardi di euro per comprare (e oltre 50 miliardi per l’intera vita del programma) un aereo con funzioni d’attacco, capace di trasportare ordigni nucleari, mentre non si trovano risorse per il lavoro, la scuola, la salute e la giustizia sociale è una scelta incomprensibile che il Governo deve rivedere” è il cuore del messaggio lanciato dall’appello posto all’attenzione dei Deputati in vista della discussione parlamentare.
Un punto importante da notare, come sottolineato fin dal principio dalla campagna “Taglia le ali alle armi”, riguarda la scelta del caccia F-35 come simbolo. Perché nella prospettiva di disarmo della campagna, e delle organizzazioni promotrici ed aderenti, a necessitare di un radicale ripensamento non è solo questo programma con i suoi evidenti problemi. Ma tutta l’architettura delle spese militari e, ancora più a monte, la scelta di fondare Pace e sicurezza nazionali ed internazionali sulle armi e sugli eserciti. In questa ottica il caccia F-35 è ovviamente un simbolo ed un esempio emblematico, per le sue dimensioni (recentemente un Senatore degli Stati Uniti lo ha definito “too big to cancel”… troppo grosso per essere cancellato, anche se ce ne sarebbero i motivi!) e per le dinamiche di produzione che lo vedono in assoluta difficoltà. Dimostrando chiaramente la scarsa efficacia economica dei programmi militari, le cui motivazioni risiedono spesso principalmente nel groviglio di interessi e legami tra industria, politica e mondo militare più che in una effettiva necessità di un paese, anche dal punto di vista delle sue Forze Armate e senza scomodare Pace e disarmo.
La discussione di queste ultime ore ha poi riproposto alcuni “luoghi comuni” da sempre sfruttati dai fautori del programma F-35 sia per rafforzare (almeno nelle intenzioni) questa scelta sia per cercare di sminuire le critiche e le obiezioni del mondo disarmista. Sono posizioni che è utile riproporre e decostruire, visto che in questa faccenda (così come canonicamente succede quando si parla di armamenti e spese militari) la disinformazione e la poca trasparenza sono stati metodi ampiamente utilizzati per “portare a casa” il risultato dell’acquisto dei caccia. E non solo nel nostro Paese: polemiche feroci sono esplose ad esempio in Norvegia e in Canada quando si è scoperto che i locali funzionari della Difesa avevano (deliberatamente?) nascosto o manipolato i dati forniti a politici e parlamentari come base per la scelta di partecipazione.
Ed anche chi scrive, venendo in contatto con i massimi vertici della Difesa nostrana, si è sentito raccontare – e in forma che ritengo onesta e sincera – molte delle considerazioni a favore degli F-35 che ora andremo a smentire.
Il primo mito da sfatare è quello delle penali, che ultimamente viene utilizzato da chi si rende conto della grossa problematicità del programma ma non hai il coraggio di dire “basta”. Una scorciatoia semplice e comoda per non prendersi la responsabilità di una decisione, una sorta di “vorrei ma non posso” che in realtà dimostra solamente di non aver capito pienamente la concreta situazione del programma Joint Strike Fighter. In realtà è proprio per come è strutturato tale programma che nella situazione attuale non esistono penali. Dopo le fasi di sviluppo e di prima industrializzazione, infatti, l’acquisizione degli aerei è prevista con una serie di produzione annuali in lotti. Inizialmente solo per gli Stati Uniti e poi via via con tutti gli altri partner del programma, è solo ogni anno che viene presa la decisione di quanti aerei fare produrre alla capocommessa Lockheed Martin. Il Governo di Washington raccoglie le necessità degli altri Stati e poi le passa all’azienda produttrice. L’Italia lo ha fatto per la prima volta l’anno scorso, con il lotto numero sei, chiedendo agli Stati Uniti ordinare tre aerei: i primi tre che verranno assemblati nel nostro paese (nello stabilimento FACO di Cameri costato alle casse dello Stato circa 800 milioni) a partire da luglio 2013. Ma ciò dimostra che se il nostro paese non dovesse più chiedere velivoli per quest’anno e per i prossimi non dovrà pagare nulla, proprio perché nessun contratto annuale è stato ancora sottoscritto.
L’altro mito da sfatare riguarda la giustificazione della partecipazione italiana al programma F-35 con i ritorni occupazionali e tecnologici. Che sono per prima cosa tutti dimostrare, ma che comunque non possono certamente costituire il motivo principale di una scelta di questo tipo. E’ bizzarro infatti pensare che il nostro ingresso in un programma di armamento a cui resteremo legati per i prossimi decenni, con tutto il portato politico e strategico collegato, venga deciso solo sulla base di presunti vantaggi dal punto di vista degli occupati. Sarebbe come giustificare l’investimento nella scuola, con la sua valenza formativa e di istruzione per le generazioni future, con il solo conteggio degli stipendi degli insegnanti.
La motivazione però non regge nemmeno andando alla prova dei numeri: per anni si è favoleggiato di 10.000 posti di lavoro legati all’F-35 dato che si dimostra una palese bufala. Certo che se poi, come fatto di recente da qualcuno si inserisce nel conteggio anche tutto quanto riguarda il tessuto economico della zona tra cui pizzerie, ristoranti, etc… beh allora siamo proprio alla farsa.
La stessa industria (Finmeccanica, holding di riferimento di Alenia Aeronautica che farà le lavorazioni) è passata di recente da una stima di 3000/4000 addetti ad una più realistica di circa 2000, vicina a quanto dicono i sindacati che si attestano su poco sopra le mille unità.
Si è detto che sarebbero avvenuti degli spostamenti di lavoratori dalla linea (in chiusura) di produzione dei caccia Eurofighter, così dimostrando che non si tratta di “nuovi” posti di lavoro. Ma se in fase di picco la produzione EFA per Alenia non ha raggiunto mai le 3000 unità come sarebbe possibile arrivare ai 10.000 posti di lavoro dichiarati per il JSF?
Si è poi sostenuto che c’era stata una incomprensione, e i lavoratori vanno conteggiati compresi dei numeri dell’indotto. Ma nessuno ha mai detto se saranno occupati pienamente sul programma o solo per una parte dell’anno e soprattutto per quanti anni.
Comunque anche tenendo per buona una stima di 2500 unità di impiego diretto (interne a Finmeccanica – fase di picco) per arrivare al totale promesso le 50 ulteriori aziende coinvolte dovrebbero impiegare ciascuna circa 150 persone stabilmente sul programma: impossibile pensarlo per ditte che per la maggior parte sono piccole o medie imprese e considerando che nessuna di esse nelle dichiarazioni recenti ha diffuso totali occupazionali maggiori delle 120 unità.
Nemmeno dal lato tecnologico siamo messi bene, perché la lavorazione che Lochkeed Martin cederà ad Alenia il suo partner italiano riguarda solo la struttura del “cassone alare” e quindi un tipo di lavoro dal basso contenuto tecnologico. Essendo sub-fornitori nel programma nemmeno il miraggio della “Ricerca e Sviluppo” che di solito viene posto come fiore all’occhiello dell’industria militare può essere utilizzato. Perché per quanto riguarda il programma F-35 la ricerca e sviluppo delle aziende italiane, a parte qualcuna dell’indotto per i prototipi, è stato praticamente pari a zero.
Il risultato finale di quest’analisi, credo, pone in piena evidenza le problematicità di questo cacciabombardiere anche agli occhi di chi non parte dalla prospettiva di nonviolenza e disarmo. Ma solamente ritiene di dover giustamente e pienamente esercitare il proprio ruolo di cittadino. Ed alla prova dei fatti e delle analisi quello che invece realmente stupisce è che, ancora oggi, ad essere tacciati di ideologia e semplificazione non concreta e non realista siano le campagne che chiedono la cancellazione del caccia F-35. Non chi lo sostiene non avendo a propria giustificazione niente se non la frasetta “è indispensabile”. Punto.
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BOX
Numero di F-35 previsti per l’Italia: 90 (dopo la riduzione scelta dal Ministro Di Paola)
Primi aerei acquistati e prodotti per l’Italia: 3 con assemblaggio in partenza il 18 luglio 2013 negli stabilimenti di Cameri
Costo complessivo dell’acquisto degli aerei italiani: 14 miliardi di euro (compresi circa 3 miliardi per le fasi di sviluppo e la costruzione della FACO di Cameri
Stima del costo della “intera vita” del progetto (comprensivo di manutenzione, sviluppo, addestramento, formazione): 52 miliardi di euro fino al 2050
* Stime e conteggi di Rete Italiana per il Disarmo su dati del Ministero della Difesa, del Dipartimento della Difesa USA, del Governmental Accountability Office e della Corte dei Conti Canadese.